«Amara» di Antonio Piluso: geografie e visioni urbane del jazz contemporaneo (Dodicilune, 2025)
L’album si posiziona all’interno di un orizzonte jazzistico proiettato verso la conurbazione stilistica e la consonanza di linguaggi differenti, annodandoli in un discorso coerente, al fine di dare forma e sostanza ad un organismo che vive di input tensiottivi e di intuizioni provenienti dall’hic et nunc.
// di Francesco Cataldo Verrina //
In questi giorni arriva sugli scaffali «Amara», nuovo lavoro del sassofonista siciliano Antonio Piluso, affiancato da Salvo Amore alla chitarra, Alessio Tirrò al basso acustico ed elettrico e Alessandro Borgia alla batteria. Il disco raccoglie sette composizioni originali, pennellando un paesaggio sonoro che avvolge tensioni ed aperture, radici mediterranee e linguaggi globali. L’habitat che ne scaturisce vibra di contrasti e conflitti che mutano in materia sonora, cosi come il caos del mondo circostante si traduce in terreno d’indagine.
Antonio Piluso nasce artisticamente in Sicilia, dove sviluppa un linguaggio che investe moduli espressivi molteplici, pur portandosi dietro gli umori di una terra di confine. Sassofonista contralto, ha partecipato a diversi progetti collettivi – come il Seven Steps Project – firmando arrangiamenti che mostrano una marcata attenzione alla all’espressività della fisionomia acustica del jazz. Con «Amara», pubblicato dall’etichetta Dodicilune, la sua scrittura non si ferma al vernacolo tradizionale, ma ingloba elementi di musica etnica, rock e fusion, creando un paesaggio sonoro che riflette la complessità del presente. Il sassofonista siciliano si distingue per un approccio che non cerca la linearità, ma la dialettica, in cui il sassofono diventa voce narrante, capace di evocare immagini urbane, suggestioni cinefile ed echi d’Oriente, disegnando scenari dialoganti, tanto che «Amara» diviene la risultante di questa tensione verso la molteplicità.
Nell’intreccio tematico del disco, il sassofono di Piluso guida il drappello con frasi che emergono come sentieri, ora lirici, ora spezzati, ma sempre pregni di dinamismo. La chitarra di Amore introduce spigoli armonici e figure oblique, creando smottamenti accordali che amplificano la tensione. Il basso di Tirrò, alternando acustico ed elettrico, costruisce un asse surrettizio che radica ed, al tempo stesso, spinge verso territori urbani. La batteria di Borgia lavora su poliritmie ed accenti spostati, generando un flusso che destabilizza e riorganizza continuamente l’insieme. Il quartetto agisce come un corpo unico, in cui Piluso apre un tema, Amore lo piega in nuove direzioni, Tirrò lo converte in linea portante e Borgia lo rilancia con un colpo inatteso. Ciascun episodio diventa frammento di un contrappunto vivo, un fascio di voci strumentali che s’inseguono, si cercano e si dileguano, per poi rientrare al nucleo gravitazionale dell’idea di partenza.
Il percorso si apre con «Amara», che funziona come la sequenza iniziale di un film: il sassofono di Piluso diventa l’io-narrante che perlustra una città notturna, la chitarra di Amore incunea tensioni come lampioni che proiettano ombre oblique, il basso di Tirrò vibra come un’insegna cadente spostta dal vento del deserto, mentre la batteria di Borgia scandisce il passo con la stessa irregolarità di un treno. Siamo alle prese con un incipit che richiama atmosfere, in cui la musica agisce come macchina da presa tra vicoli, mercati e piazze. Con «Idea», dopo un inizio serpentino, quasi orientale, il quartetto sembra evocare un graffito improvviso, in cui la musica appare rapida, incisiva, come il montaggio serrato di un videoclip girato strada. Il sax è un faro che lascia traccia, la chitarra un frammento visivo, il basso e la batteria pulsazioni che restituiscono il ritmo di un quartiere in movimento. «197», introdotta dal basso, porta invece la tensione di un plot cinematografico underground: suoni ruvidi, atmosfere elettriche, la chitarra vibra come un neon intermittente, la batteria, quasi marciante, colpisce come una sequenza di flash fotografici a cadenza fissa, mentre la musica diventa immagine di un paesaggio industriale decadente, con il quartetto che restituisce la densità del set urbano di una città del Sud del mondo.
In «Malu tempu», quasi un rondò dal sapore ancestrale, la scena si fa teatrale: il sassofono pronuncia battute intense, la chitarra risponde con ombre, il basso diventa voce fuori campo e la batteria regia invisibile che scandisce i tempi. È un atto drammatico che richiama l’odierno senso di vuoto, teso a mescolare realismo e poesia. «Scallia» mostra una procedura progressiva con un lungo preambolo percussivo, simile alle fasi introduttive di romanzo, in cui la tensione cresce capitolo dopo capitolo, quindi un’improvvisa accelerazione come in un inseguimento, in cui il sax corre come protagonista di una spy story ambientata a Tangeri, la chitarra lancia ostacoli sonori, il basso piega la strada, la batteria spinge come una moto che sfreccia tra gli angusti vicoli. La città diventa scena d’azione, con il quartetto che ordisce una casba frenetica, per poi sfumare in un’aura di sospensione, sino a giungere al finale mozzafiato. Con «Sichillia» il paesaggio si traduce in in miraggio: il sax emette segnali come antenne, la chitarra s’illumina come luci di posizione, il basso cammina sul filo come corrente elettrica, mentre la batteria frammenta il tempo come sequenze di montaggio. Il fruitore viene risucchiato in un set di fantascienza che richiama estetiche cyberpunk e atmosfere contemporanee. Infine «Vespri» chiude con un finale aperto, dove il sassofono lascia frasi sospese come i titoli di coda di un vecchio film in bianco e nero, mentre la chitarra riverbera immagini sfocate ed il basso, con la complicità della batteria, restituisce l’eco di un quartiere assonnato di quella Sicilia tra Africa ed Oriente.
L’album si posiziona all’interno di un orizzonte jazzistico proiettato verso la conurbazione stilistica e la consonanza di linguaggi differenti, annodandoli in un discorso coerente, al fine di dare forma e sostanza ad un organismo che vive di input tensiottivi e di intuizioni provenienti dall’hic et nunc. Non di meno, i singoli musicisti oltrepassano il ruolo si semplici accompagnatori per diventare latori e corresponsabili di un pensiero relazionale e condiviso. A conti fatti «Amara» è un concept che restituisce l’immagine di un jazz in movimento, atto a lambire radici e modernità, tradizione e sperimentazione, traslando la diversità in coesione critica.

