«Adagio» di Claudio Fasoli: la poetica dell’essenziale, sobrietà e misura (Almar Records, 2006)
«Adagio» non si attesta come semplice capitolo di una lunga carriera, ma piuttosto quale gesto di ascolto, un’arte che considera l’armonia come grammatica di libertà temperata e la memoria come sostanza viva, in grado di rinnovarsi in ogni silenzio ben posto.
// di Francesco Cataldo Verrina //
La scrittura di «Adagio» emerge come diario sonoro riflessivo, cesellato in forma trio drumless, con una chiarezza progettuale che privilegia la sedimentazione delle idee e l’introspezione timbrica. Claudio Fasoli conduce il discorso con tenore e soprano, affidando a Paolo Birro e Marco Micheli un piano armonico mobile e una pulsazione asciutta che delineano un paesaggio meditativo, più cameristico che idiomatico, mai compiaciuto e sempre orientato alla misura interna della frase. La fotografia di copertina, al Lido di Venezia, introduce una memoria affettiva che attraversa i brani per allusioni discrete, con richiami alla ciclicità infantile, alla cura del dettaglio e a una malinconia luminosa che preferisce la forma breve alla retorica.
La scelta del trio senza batteria favorisce un equilibrio di pressioni: il contrabbasso mantiene una scansione tersa, mai ridondante, che consente al pianoforte di articolare spazi armonici sobri, e al sax di distendere la procedura con flessibilità respiratoria. La durata complessiva, prossima ai quarantacinque minuti, richiama un’idea di album come ciclo conciso, dove la varietà dei tempi nasce da micro-contrasti di densità ritmica e dalla posizione dei silenzi. La voce del tenore, più rotonda e carezzevole, trova nel registro medio la sua zona elettiva; il soprano, più arguto e trasparente, introduce curvature melodiche snelle ed una punta di ironia lirica nelle tracce più agili, affidandosi a sorprese misurate, mai eccessive, ma sempre capaci di aprire un varco inatteso nella trama. È un eloquio che preferisce la discrezione alla dichiarazione, la pausa al clamore, e proprio per questo conquista una forza singolare. Il pianoforte ed il contrabbasso offrono un sostegno chiaro e pulito, inclinato verso forme ridotte e ostinati discreti: non accompagnano, ma costruiscono un terreno su cui il sax può muoversi con libertà sorvegliata. La loro funzione non è ancillare, bensì strutturale, poiché delimitano lo spazio e ne garantiscono la lucidità. In questo equilibrio, il trio drumless definisce un ambiente raccolto, quasi cameristico, dove la cura del respiro diventa cifra poetica. Ciascuna nota appare necessaria ed ogni silenzio diviene parte integrante della forma. La poetica dell’essenziale si manifesta con garbo, ma non rinuncia alla forza dell’emozione, temperata e disciplinata, mai abbandonata al sentimentalismo. I motivi ricorrenti di «Adagio» si manifestano attraverso cellule cicliche che il contrabbasso ripete con sobrietà, ostinati misurati che non irrigidiscono il flusso ma lo sostengono, offrendo continuità e permettendo al sax di rilanciare la l’intreccio motivico con sorgività. La rete accordale s’infila all’interno di centri modali piegati verso risoluzioni sfumate che evitano la cadenza piena, conducendo sovente ad un finale sospinto, mai autenticamente concluso, lasciando aperto lo spazio interpretativo. La voce del pianoforte preferisce accordi ridotti, triadi aperte e quarte sovrapposte, con un moto parallelo controllato che garantisce chiarezza e sobrietà; il voice-leading si affida a moti congiunti ed intervalli di quarta, creando un tessuto armonico essenziale ma raffinato. La progressione del sax, infine, si distingue per frasi circolari e anaforiche, con accenti spostati e troncature che generano una prosodia conversativa, intenta a traslare il discorso musicale in dialogo vivo, più vicino alla parola che alla declamazione.
L’album intrattiene un dialogo con la fotografia d’epoca e con una certa estetica novecentesca della forma contenuta, vicina al pensiero aforistico e alla scrittura diaristica. Satie affiora per frugalità e senso del dettaglio, non come citazione pedissequa, ma come memoria di essenzialità. Si potrebbe parlare di una scultura sonora a bassa pressione, dove ogni gesto viene ridotto alla necessità. L’eco cameristica respira accanto a una pratica jazzistica che considera l’intelaiatura strutturale come esercizio di equilibrio, ossia non virtuosismo di superficie, ma piuttosto rigore del fraseggio ed attenzione alla limpidezza dell’ordito accordale. Ogni episodio si legge come la pagina di un quaderno privato, dove la musica dispensa il concetto di riflessione disciplinata, priva di compiacimento, ma tesa ad evocare immagini e atmosfere con rigore e temperanza. Il ciclo si apre su pagine più solari con «Kimpale» e «Color Tufo», dove uno swing dalle inflessioni mediterranee illumina la trama senza indulgere in folclore. Il contrabbasso avanza con una camminata elastica, scegliendo appoggi morbidi e cadenze evitanti; il pianoforte, con anticipazioni misurate e rilanci sincopati, prepara il terreno a un sax che gioca sul bordo tra canto e parlato, animando la frase con spostamenti d’accento e pause eloquenti. L’aria si fa più opulenta nei passaggi centrali, «Prime» e «Len», che prediligono un passo lento e un lavoro di materiali sonori compatti, in cui Birro concentra masse ravvicinate, prediligendo quarte sovrapposte e triadi aperte, mentre Micheli scolpisce figure essenziali che tengono il centro senza sovraccarico; Fasoli risponde con un fraseggio frammentato e consapevole, capace di interrompere per dare significato al vuoto. La costruzione si manifesta come pensiero controllabile, evitando la cadenza piena, preferendo risoluzioni sfumate e finali sospinti. «Memories» ed «Avind» conducono verso un registro intimo. La linea del contrabbasso, ferma e tersa, opera come filo d’Arianna che non trascina, ma orienta. Il pianoforte sceglie impalcature misurate, poche altezze ben posizionate che danno alle frasi del sax un orizzonte di chiarezza, mentre la voce del tenore, con una pasta rotonda e calda, affida alle ellissi una confessione discreta. L’impressione non è diaristica per accumulo, bensì per rigore, quasi un taccuino che raccoglie frammenti necessari, con la maturità di un adulto che custodisce un pensiero ancora infantile.
«Dniva» e «Poesia» funzionano come miniature, ossia apparizioni che si affacciano e rientrano, lasciando il segno attraverso sottrazione e allusione, con una lettura che privilegia la sintesi alla dichiarazione. Il cuore del lavoro pulsa in «Adagio»: un costrutto dal moto circolare, affidato al tenore, che dialoga con poche note nitide del pianoforte e con una pulsazione scarna del contrabbasso. La memoria di Erik Satie emerge non come citazione, bensì come educazione alla sobrietà, alla precisione del dettaglio e alla cantabilità pacata. La ciclicità del metro produce una sensazione di respiro controllato, con finali che evitano il trionfo della cadenza, preferendo una continuità gentile che chiede attenzione e pazienza. L’album s’illumina nel suo principio estetico, dove la brevità non riduce, espande il senso attraverso l’economia del materiale, lasciando alla pausa il compito di cucire i passaggi. «Piano Insight» chiude con la solitudine del tenore: frasi appena accennate, quasi aforismi, che aprono invece di concludere. Non è epilogo, ma piuttosto un invito alla meditazione, un esercizio di pensiero musicale che affida all’interruzione il valore della forma. L’intero album, così letto, somiglia a una scultura a bassa pressione, in cui ogni gesto viene depurato fino alla necessità, ciascun colore sonoro resta sorvegliato e qualsiasi scelta ritmica indica una misura etica della musica. «Adagio» non si attesta come semplice capitolo di una lunga carriera, ma piuttosto quale gesto di ascolto, un’arte che considera l’armonia come grammatica di libertà temperata e la memoria come sostanza viva, in grado di rinnovarsi in ogni silenzio ben posto.

