«Perpetual Groove»: l’eloquio di Bobby Watson, dal magistero di Parker alla sensibilità di McLean (Red Records -ristampa CD- 2025)
Bobby Watson
La classica edizione in vinile, mai ristampata, oggi rivive in CD per volere del produttore Marco Pennisi, quale passaggio cruciale, nonché testimonianza di come un sassofonista americano, cucito nell’imbastitura di un trio italiano, abbia saputo lasciare una traccia tangibile della vitalità della musica afro-americana.
// di Francesco Cataldo Verrina //
La registrazione milanese di Bobby Watson al club «Le Scimmie», nel novembre del 1983, rappresenta un episodio di transizione ed, al tempo stesso, di rivelazione. Watson, trentenne e già reduce da oltre quattro anni di militanza nei Jazz Messengers di Art Blakey, si presentava in Europa con un bagaglio tecnico e stilistico consolidato, maturato accanto a figure di rilievo quali Valery Ponomarev, David Schnitter ed un giovanissimo Wynton Marsalis. La sua voce al contralto, nutrita dall’ineluttabile magistero di Charlie Parker, si proiettava verso nuove possibilità espressive, facendo leva su una sensibilità inventiva che lo avrebbe presto collocato tra i protagonisti del sax contralto degli ultimi decenni.
La scelta di Sergio Veschi e Alberto Alberti di affidare a Watson la collaborazione dell’Open Jazz Trio – Piero Bassini al pianoforte, Attilio Zanchi al contrabbasso e Giampiero Prina alla batteria – si rivelò decisiva. La sezione ritmica italiana, di solida formazione e tecnicamente raffinata, garantì un tessuto armonico e ritmico capace di sostenere ed amplificare l’eloquio del sassofonista. Bassini, con un pianismo immaginativo e interiormente articolato, Zanchi, con un profilo acustico elastico e incisivo e Prina, con una pulsazione creativa e calibrata, costruirono un habitat ideale che permise a Watson di esternare appieno ricettività e capacità germinative. Il repertorio, diluito tra standard ed un solo originale, fa emergere la doppia natura della performance: da un lato la necessità di proporre temi familiari ai compagni di viaggio, dall’altro la volontà di affermare una voce personale.
«Cherokee», srotolato a velocità vertiginosa, diventa una pista di lancio per la tecnica e la fantasia di Watson, che affronta la struttura armonica di Ray Noble a velocità vertiginosa, trascinando il tema su un terreno di vivida esplorazione cromatica. La logica accordale, basata su progressioni II–V–I e modulazioni rapide, diventa un banco di prova per la liquidità del contralto. Il «canto» di Watson, radicato nella tradizione di Kansas City, si dipana con sensibilità moderna, mentre Bassini introduce voicings aperti e Zanchi e Prina sostengono con un profilo acustico elastico e proattivo. In «Mr. P.C.», il tributo a Coltrane, eseguito al soprano, nette in luce la versatilità di Watson. La linea tematica, imperniata su un ostinato di dodici battute in blues minore, risulta sviluppata attraverso un fraseggio che alterna lirismo e tensione. Bassini, con un assolo di fervida immaginazione, amplifica la dimensione modale del costrutto, mentre la retroguardia ritmica lavora su accenti sincopati che richiamano la logica del quartetto coltraniano. Watson dimostra la sua versatilità nel coniugare rispetto per la fonte ed invenzione personale. «Oleo» di Sonny Rollins viene ingaggiata sulla scorta di un lirismo frenetico. Watson modula fuori registro, inserendo frasi che si spingono oltre la consuetudine boppish. La sezione ritmica, con Bassini e Zanchi, implementa una trama armonica che alterna walking bass e accordi quartali, mentre Prina addensa con un gesto ritmico incisivo. L’insieme diventa laboratorio di interplay, dove il contralto si staglia con assertività e spavalderia.
La performance solitaria di Watson in «Perpetual Groove», priva di accompagnamento, evidenzia un tratto che richiama Jackie McLean, ossia l’attitudine a spingersi in territori impervi e di utilizzare il contralto come strumento di ricerca armonica e timbrica, in grado di convertire il fraseggio in un marasma quasi asimmetrico ed abrasivo La respirazione circolare diventa mezzo tecnico per sostenere un flusso continuo, mentre la logica cromatica richiama le esplorazioni rigorose di Lennie Tristano e, per analogia, la severità del «Clavicembalo ben temperato», ma senza mai scivolare in un esercizio accademico, mentre il respiro dello swing resta costante, segno di una interiorità musicale che non rinuncia alla vitalità. «Blue ’n Boogie» di Gillespie costituisce un ritorno alle radici, suggellando il live-act con un approdo simbolico alle origini del bop. Watson riafferma la conoscenza profonda del linguaggio afro-americano, ma lo fa con un modus agendi che porta con sé l’eco di Parker e la tensione di McLean. La sezione ritmica accompagna con decisione, mentre il contralto si sposta tra frasi spezzate ed articolazioni cromatiche, dimostrando quanto la tradizione possa convivere con la modernità.
Ciascun passaggio dell’album, riflette un diverso riferimento stilistico: Parker come matrice tecnica e cromatica, Coltrane quale modello di profondità modale e spirituale, McLean come figura di inquietudine e indagine. Watson non si limita a citare, ma crogiola tali influenze in un linguaggio personale, fluido e prolifico, atto a trasformare il concerto milanese in un opificio di swing e modernità. «Perpetual Groove» aggiunge un tassello alla trilogia Red Records di «Appointment in Milano», «Round Trip» e «Love Remains», lavori che lo avrebbero consacrato come jazzman completo e maturo. La sessione milanese, pur transitoria, contiene già in nuce le caratteristiche peculiari del suo linguaggio: fluidità, senso del ritmo, conoscenza profonda del blues e ricerca armonica audace. La classica edizione in vinile, mai ristampata, oggi rivive in CD per volere del produttore Marco Pennisi, quale passaggio cruciale, nonché testimonianza di come un sassofonista americano, cucito nell’imbastitura di un trio italiano, abbia saputo lasciare una traccia tangibile della vitalità della musica afro-americana.

