divano1

// di Gianluca Giorgi //

Kahil El’Zabar Quartet, A Time For Healing (2lp 2021)

Un altro epico LP doppio di Kahil El’Zabar che ci offre musica (antica e futura) per la mente, il corpo e l’anima, al comando di un rinnovato quartetto di giovani musicisti di Chicago che comprende, l’emergente sassofonista Isaiah Collier, il trombettista Corey Wilkes (anche alle ciotole dello spirito) e il tastierista Justin Dillard. Tutti i musicisti suonano anche le percussioni. Il discepolo di El’Zabar Corey Wilkes, considerato oggi uno dei migliori trombettisti in circolazione, dopo aver anche lavorato con artisti del calibro di Roy Hargrove, Kurt Elling, Greg Osby, Marcus Belgrave, i The Art Ensemble di Chicago e guidato gruppi a suo nome, ritorna e brilla ancora una volta. Il mago della tastiera Justin Dillard, che ha davvero brillato con El’Zabar su “Spirit Groove”, torna con un’altra performance stellare, immersa nell’eredità di Dr. Lonnie Smith e McCoy Tyner. Isaiah Collier, sassofonista in forte crescita si unisce al gruppo e non delude. El’Zabar guida l’ensemble attraverso groove ipnotici, fornendo a Collier ampio spazio per improvvisare e portare il suono spirituale di Trane e Pharoah. Tornato alla etichetta Spiritmuse Records, questo nuovo album riprende con forza da dove si era interrotto “America The Beautiful” del 2020, nella misura in cui la musica affronta le questioni centrali che le persone devono affrontare in qualsiasi parte del mondo e nella “terra del libero”. Non è solo la risposta alle domande urgenti poste dal precedente “America the Beautiful” di El’Zabar, ma un’opera rigenerativa di fronte alla crescente ansia globale. Kahil El’Zabar esplora la gamma della Great Black Music in America, attraverso tutti i movimenti che sono fioriti a Chicago, blues, R&B, soul, gospel, house music, jazz spirituale e tutte le radici africane. I nove brani di questo disco portano quel lato spirituale in cui El’Zabar ama immergersi, ma il difetto che si può riscontrare è che la stragrande maggioranza dei pezzi è eccessivamente lunga, seguendo una circolarità che, dopo un po’, malgrado la bravura dei musicisti tende ad appesantire il lavoro. Multi-percussionista, band-leader, cantante, compositore, direttore d’orchestra ed educatore, Kahil El’Zabar è stato in prima linea nella scena jazz d’avanguardia incessantemente creativa non solo di Chicago per oltre 4 decenni. Considerato il pioniere del groove spirituale e del jazz afrocentrico, El’Zabar ha registrato e si è esibito accanto ad avanguardisti fondamentali come Pharoah Sanders, Archie Shepp, David Murray, Billy Bang, Lester Bowie, Nina Simone e Stevie Wonder, per citarne alcuni. È sempre un piacere ascoltare il percussionista Kahil El’Zabar e il suo suono che è riconoscibile da lontano. È avvincente e contagioso: attira l’ascoltatore e proietta una visione ottimistica del futuro e può guarire le nostre anime in qualsiasi momento. Ciò di cui il mondo ha bisogno in questo momento è esattamente ciò che El’Zabar e il suo quartetto propongono: un tempo di “guarigione”.

Brahja, s/t (2019 ristampa ltd ed 3rd Edition 2024)

Terza ristampa in edizione limitata (1000 copie) di questo disco molto ricercato del 2019 con note di copertina del pluripremiato giornalista musicale Tone Scott. “Brahja” è un tuffo profondo nella vera anima del jazz, jazz classico e spirituale che si intreccia all’avanguardia. Brahja (la band) è un collettivo di musicisti che incarna perfettamente la filosofia del jazz moderno. Fondatore e leader del gruppo è il sassofonista e polistrumentista Devin Brahja Waldman, un punto fermo della scena jazz musicale di New York, che ha costruito questo organico con musicisti presi al di fuori dell’area geografica di New York City e con i quali ha poi inciso questo album di debutto. I musicisti, infatti, provengono da varie località: da New York City, dal circuito jazz di Montreal (Canada), da quello storico di Chicago e dal focolaio jazz poco conosciuto di Washington D.C., tutti attori di questo collettivo musicale a cui Waldman si è affidato per dare vita a questo album iconico e unico. Dal 2015 al 2017, la band ha cominciato a suonare live e ha registrare molto, infatti la maggior parte delle canzoni di questo album provengono appunto dal quel periodo e sono state eseguite e registrate molte versioni prima di incidere l’album nel 2017. Da metà del 2010 la band ha iniziato a viaggiare in tour in America con un furgone GMC in cui stavano i cinque elementi base del gruppo – Damon Shadrach Hankoff (pianoforte), Martin Heslop (basso), Isis Giraldo (sintetizzatore, voce), Daniel Gelinas (batteria) e Devin Brahja Waldman (sassofono contralto) – e l’attrezzatura. A seconda delle città in cui andavano a suonare si univano altri musicisti. A New York (Daniel Carter, Anais Mavïel, Heru Shabak-ra e Alexis Marcelo), a Montreal (Adam Kinner e Sam Shalabi), a Washington, DC (Luke Stewart), a Chicago (Margaret Morris e Adam Zanollini) e così via. Così facendo il suono si è evoluto e molti di questi ospiti poi sono diventati parte dell’ensemble che ha inciso questo album di debutto. Dal 2008, attraverso le diverse configurazioni, D. W. Brahja ha creato il suo marchio molto particolare di jazz spirituale d’avanguardia, anche se le sue “radici” provengono al di fuori della scena jazz, infatti ha precedentemente collaborato con Patti Smith, Lydia Lunch e Thurston Moore dei Sonic Youth. Il disco presenta un jazz profondo in cui si incrociano sonorità acustiche ed elettriche che creano un suono complesso e un’atmosfera fortemente spirituale. Troviamo momenti in cui le tastiere e le percussioni sono molto presenti ma sempre in modo coeso e stratificato con poche individualità dei singoli a favore di un suono più complessivo della band, brani che si spostano più verso l’avanguardia, anche se la maggior parte del lavoro è collocato in un territorio più ombroso e lunatico. Il disco può sembrare una ristampa di una rarità free-jazz degli anni ’70 perduta da tempo, ma in realtà è un album nuovo di zecca. Nel disco troviamo tagli jazz spirituali e improvvisati più tradizionali che viaggiano fianco a fianco a sforzi più sperimentali, elettrificati, influenzati dal rock alternativo (vedi “Qwikness”), pezzi deliziosamente fuori (vedi “Keepers”, che vanta canti vocali alla deriva e motivi con i sintetizzatori in stile Terry Riley), passaggi cinematografici tipo Cinematic Orchestra (“Welcome To Wohlhom”, “Return of the Good Enemy”). All’inizio le composizioni del disco sembrano semplici, ancorate da un ritmo coerente e da ripetizioni simili a canti da parte di figure melodiche, ma poi il tutto è circondato da un paesaggio sonoro disorientante composto da sintetizzatori, voci, chitarre elaborate, percussioni e altro ancora. Anche l’approccio di Waldman al sassofono è molto avvincente e distintivo, un suono che rimanda a Coltrane ma anche al tono delicato e trasparente di Jimmy Giuffre o Lee Konitz. L’ascoltatore viene coinvolto da questo lavoro estremamente trippy. Un disco affascinante ed unico, nel suo piccolo anche iconico, la prima stampa è rara e già abbastanza costosa.

Abdul Wadud, By Myself (1978 ristampa 2023)

Abdul Wadud (morto il 10 agosto 2022) è stato una figura importante ma dimenticata della scena loft jazz degli anni ’70. In questo disco presenta una serie ammaliante di brani per violoncello solo collezionando un album di difficile collocazione. Il violoncello, infatti, viene suonato in uno stile estremamente inventivo, molto più vicino all’improvvisazione per basso di musicisti come Malachi Favors e Barre Phillips, con una strizzatina d’occhio al suono del violino di Leroy Jenkins. Abdul Wadud ha usato il violoncello per fare musica in un modo che non era mai stato utilizzato per lo strumento e questo album rappresenta la prima uscita di questo genio del violoncello solo. Disco pubblicato in stampa privata dallo stesso Abdul Wadud nel 1977, ormai raro ed estremamente costoso, viene ristampato per la prima volta con l’approvazione dello stesso musicista purtroppo venuto a mancare il 10 agosto 2022. Va, quindi, ringraziata la sua famiglia e in particolare suo figlio Raheem DeVaughn per aver reso nuovamente disponibile questo capolavoro in vinile. Il restauro del nastro, ormai deteriorato e il trasferimento DSD sono stati condotti dal tecnico di masterizzazione Paul Blakemore, vincitore di un Grammy. Non esiste album a cui poterlo paragonare, disco molto particolare ma da riscoprire.

Christian McBride’s New Jawn, Prime (2lp rosso 3 facciate 2023)

Christian McBride (53 anni), nato a Filadelfia, è uno musicista e uno dei migliori bassisti della sua generazione, sia al basso acustico che elettrico, suona il primo in questo album anche con l’archetto come nell’introduzione di “Lurkers”, brano che grazie al contrabbasso usato come violoncello, al clarinetto basso e alla tromba silenziata prende un’aura minacciosa, sinistra e molto spiritual. Bride ha inciso numerosi album come leader, con una varietà di configurazioni e di band, oltre ad aver collaborato con molti artisti del mondo del jazz, del pop e del funk, tra cui Freddie Hubbard, McCoy Tyner, Wynton Marsalis, Chick Corea, Diana Krall, Sting, Paul McCartney e James Brown. “Prime” è il secondo capitolo del bassista/compositore Christian McBride con il suo gruppo post-bop-meets-avant-jazz “New Jawn”, “Jawn” è lo slang di Filadelfia per una persona, un luogo o una cosa. Per il disco McBride si affida ad un quartetto di prim’ordine con una tecnica non comune. Il quartetto senza tastiera include due suonatori di fiati e un batterista ed è così composto: il trombettista Josh Evans, ispirato da Roy Eldridge, Dizzy Gillespie e Jackie McLean che ha suonato con Cedar Walton, Benny Golson e Roy Hargrove. Marcus Strickland che suona sax tenore e clarinetto basso che ha suonato con Roy Haynes, Dave Douglas, Jeff “Tain” Watts e suo fratello, il batterista E.J. Paese di Strick. Il batterista Nasheet Waits che ha supportato Jason Moran, Avishai Cohen ed Eddie Gomez. Il disco è composto da otto brani, cinque dei quali composti dai membri della band (McBride ha due composizioni e il resto della band, uno a testa) e tre cover di brani composti da Larry Young (“Ossequious”), Ornette Coleman (“The Good Life”) e Sonny Rollins (“East Broadway Rundown”). È un disco in cui possiamo trovare passaggi funky-groovy e momenti post-bop, non ci si deve fermare al selvaggio inizio del brano “Head Bedlam”, con urla e batteria impazzita perché poi il disco rientra in canoni di jazz meno free, pur rimanendo un disco senza brani melodici e che può piacere a chi ama il jazz impegnativo, eccitante, dinamico, in alcuni momenti dissonante e all’avanguardia.

0 Condivisioni

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *