Fresu_Bowie

Il lavoro collettivo ed interculturale operato dal trombettista trasforma il jazz in un porto di mare aperto all’attracco di ogni forma di civiltà sonora, evitando la trappola delle recinzioni e degli steccati culturali, che rischierebbero di sfociare nel manierismo, nel narcisismo e nell’individualismo creativo.

// Francesco Cataldo Verrina //

In occasione del sessantesimo compleanno Paolo Fresu schierò un tridente d’attacco con un cofanetto contenente tre opere assai differenti, di cui una già edita ma rimasterizzata per l’occasione, e due lavori freschi di conio con un titolo apparentemente non leggibile, FR3SU, basato sul «leet». un codice composto da lettere, numeri e simboli non alfabetici, dove è decisiva la somiglianza tra le lettere ed i numeri o i simboli che le sostituiscono. FR3SU mostra tre aspetti della proteiforme personalità del musicista sardo che riportano alla mente quanto affermava Charles Mingus, ossia «io sono tre». Il tre è il numero perfetto, ma forse non basta a compendiare i veri aspetti dello scibile sonoro di un Fresu inarrestabile e quanto mai bulimico. Il fertilizzante creativo che Fresu innesta nel suo humus sonoro nasce sempre da un incrocio di linguaggi e da una visione policroma della realtà che fa leva costantemente su vari livelli espressivi: musica, estetica e arte dell’immagine. Il lavoro collettivo ed interculturale operato dal trombettista trasforma il jazz in un porto di mare aperto all’attracco di ogni forma di civiltà sonora, evitando la trappola delle recinzioni e degli steccati culturali, che rischierebbero di sfociare nel manierismo, nel narcisismo e nell’individualismo creativo.

La genuinità di tale operazione è dimostrata dal fatto che il musicista di Berchidda, per l’occasione, avrebbe potuto pubblicare una ricca antologia del suo «meglio» con l’aggiunta di un paio di inediti come fanno in molti, invece lo fa attraverso una complessa operazione poco autoreferenziale, perfino rischiosa, dove c’è poca celebrazione e molto coraggio nell’accettare un ulteriore sfida. Lo stesso Fresu precisa: «Abbiamo ritenuto che un progetto di questo tipo potesse essere un ottimo modo per festeggiare i miei sessanta anni, un momento importante (…) un triplo album che rappresenta il mio modo di intendere la musica, che va oltre gli stili». L’immagine di copertina è un assemblaggio di alcuni elementi tratti dalle copertine dei tre dischi, ad opera del grafico della Tuk Music, Oscar Diodoro, il quale è intervenuto attraverso un ardito gioco di geometrie creative sia nella cover principale che nel decorare gli interni che accompagnano il ricco ed originale booklet. Due di questi dischi contenuti nel confezione edita per il genetliaco si riferiscono ad operazioni più consuete a cui l’ascoltatore medio è già abituato. Di certo, fra i tre, il più insolito e sorprendente è «Heroes» un tributo a David Bowie realizzato con estrema capacità di analisi e di sintesi della vasta discografia del musicista britannico.

«HEROES»

Quando il Comune di Monsummano Terme, cittadina toscana luogo della prima apparizione in Italia di Bowie nel 1969, in occasione di un concorso canoro, commissionò a Fresu un album celebrativo sul Duca Bianco, il musicista sardo deve avere avuto un’ennesima folgorazione ed un plauso alla sua capacità di vivere e coltivare la musica sui più disparati terreni, anche quelli apparentemente improbabili. Come Fresu, sia pure in ambiti diversi, Bowie ha espresso nell’arco della sua carriera uno sterminato e mutevole eclettismo sonoro, sin dagli esordi proponendo un rock meticcio esaltato da colorati travestimenti glamour: gli abiti dalle fogge insolite e le sue pettinature dalle nounces chimiche e sgargianti definirono anzitempo l’idea di look legato alla musica, con almeno un decennio di anticipo, prima che gli anni Ottanta metabolizzassero il concetto estetico come verbo e l’outfit come elemento non complementare ma organico al progetto sonoro. David Bowie l’uomo duale, ambiguo per natura: «Ho conosciuto mia moglie perché andavamo a letto con lo stesso uomo».

David Bowie, il ragazzo emaciato cresciuto nei sobborghi con gli occhi di due colori diversi che divenne «l’uomo che cadde sulla terra», l’alieno che come Sun Ra crede nella reincarnazione e nel contatto extra-terrestre, che non disdegna di fare l’attore vero e non il «cantattore». Il Duca Bianco innamorato della musica nera e dell’R&B che sposa il rock al soul e distilla alcuni album epocali, che si rifugia a Berlino, dove apprende la parabola dell’elettronica e ne ritorna corroborato. Il dandy modaiolo che frequenta lo Studio 54 di New York e non rifiuta di abbracciare la causa della disco-funk affidandosi alle cure di Nile Rodgers degli Chic, quindi a Giorgio Moroder; che sopravvive al punk e cavalca nuovamente l’onda del rock revival fino alla techno-dance, per ritornare alla sperimentazione negli ultimi anni di una movimentata esistenza artistica. David Bowie un personaggio non facile da trattare, se non altro per l’estensione della discografia e della marcata e debordante personalità: il visionario, il mutante, l’innovatore, il primo a ribellarsi all’industria della musica decidendo di vendere direttamente on line le sue canzoni.

Per l’operazione Bowie, Fresu ha assemblato un line-up di eclettici musicisti con un vissuto musicale assai diverso con l’intento di garantire all’operazione tutte le caratteristiche sonore mutevoli e cangianti in grado di catturarne ed imprigionarne il variegato mood. Pur ricollocando il progetto in una dimensione rispettosa degli assunti basilari dell’artista tributato, l’alieno viene proiettato verso un’altra galassia musicale distante anni luce dalla sua rampa di lancio. La track-list è imperniata su canzoni che attraversano le varie fasi della discografia della rock-star inglese, con il desiderio di conferire organicità e dinamicità al progetto già in fase di arrangiamento, al quale ogni singolo musicista ha apportato un fattivo contribuito: oltre a Paolo Fresu (tromba e flicorno), Petra Magoni (voce), Gianluca Petrella (trombone ed elettronica), Francesco Diodati (chitarra elettrica), Francesco Ponticelli (contrabbasso e basso elettrico) e Christian Meyer (batteria) con l’aggiunta nelle tracce 2, 6, 7, 8 e 9 della giovane Frida Bollani Magoni (backing Vocals).

L’album si apre con «Rebel Rebel» dove l’originaria atmosfera Swingn’ London da connotati beat, viene trasposta in una dimensione modello new cool anni ’80, attraverso una mistura di soul-jazz dai contrafforti caraibici; superba Petra Magoni che adatta perfettamente la duttilità della sua voce ai cambi di tempo ed ai passaggi strumentali ricreando la classica ambientazione R&B dal sapore vagamente retrò. A seguire «Let’s Dance» che, completamente evirata del chitarrismo «grattugiato» e del basso slap degli Chic, viene reimmaginata seguendo una formula che sarebbe piaciuta molto al Duca Bianco, ossia a metà strada tra i Roxy Music ed il Bowie di «Station To Station» del 1976. «We Are We Now», che appartiene all’ultimo periodo del musicista inglese, pezzo di punta dell’album «The Next Day» del 2013, in origine una ballata cantata con sofferente voce stentorea, viene rivisitata con il medesimo trasporto emotivo ma con un’intelaiatura sonora che ricorda il Miles Davis del tardo periodo elettrico, ben evidenziata dall’incedere di Fresu, mentre la voce della Magoni evita la rilettura manieristica attraverso piccole variazioni melodiche che sembrano oltrepassare il cadenzato e metronomico canto bowiano.

«LitleWonder» contenuta nell’album «Earthling» del 1997, è composizione nata sotto l’influenza dell’elettronica e dei rave-party di quegli anni, la cosiddetta jungle music. Fresu e compagni diradano la giungla metropolitana trasformando il costrutto sonoro in un moderno paradigma fusion a base di jazz-rock, senza diminuirne la forza propulsiva. «Life On Mars», certamente una delle canzoni più note insieme a «Starman, la punta di diamante della discografia del cantautore britannico: il Bowie del periodo interplanetario. L’idea della «vita marziana» viene rielaborata come una ballata minimalista, quasi unplugged, che approda ad un’altra galassia offrendo un territorio sconfinato alla persistente vocalità di Petra Magoni, sospinta dai delicati e struggenti tocchi, accordi, rintocchi e ricordi di una chitarra molto tangibile e terrena. «This is Not America» ritrova nuovamente l’ispirazione nell’eremo sonoro dell’ultimo Miles Davis: la tromba di Fresu e la voce della Magoni si alternano su un corposo groove funkfied elaborato da un perfetto intreccio di chitarra, basso e batteria. «Space Oddity» è l’iperbole spaziale del mitico Major Tom del 1972, ripreso successivamente in «Ashes To Ashes», una sorta di personaggio alieno che perde il controllo della propria astronave e vive in una dimensione immaginaria costruita da Bowie, fatta di sonorità che s’inerpicano tra alti e bassi e che a volte non sembrano tener conto del tempo e dello spazio. Questa nuova versione ne coglie pienamente l’aspetto di caos razionale e progressivo proponendo una rilettura quasi a più step: adagio, movimento e crescendo.

«Time» è contenuto in «Aladin Sane» del 1973, oltre cinque milioni di copie vendute, album che nasce dalla prima esperienza americana di Bowie e dove le sonorità originarie sono il frutto di quelle nuove visioni e suggestioni: un rock di frontiera che parte sottotraccia per poi sfociare in un finale trionfalistico alla Tom Petty o alla John Cougar Mellencamp, ma senza perdere i connotati british-glamour. In questa rivisitazione rimane presente solo l’idea progressiva del crescendo, ma l’ambientazione sonora sfrutta il linguaggio trasversale del jazz per giungere ad un climax quasi bandistico, complice anche il suono del trombone. L’album si chiude con la title-track «Heroes», la canzone simbolo di Bowie scritta insieme a Brian Eno, di cui l’omonimo album fa parte della cosiddetta trilogia berlinese; l’inno di una generazione senza futuro bene rappresentata dal verso «We Can Be Heroes, Just For One Day» e schiacciata dalla tensione della guerra fredda, quasi un preludio alla new wave, a cui la nuova versione fa riferimento nel ricreare la struttura ritmico-armonica del brano. La band di Fresu prende le distanze dal modulo originario calandosi in un magma di sonorità aspre e vellutate al contempo, dove il canto si lacera e si rigenera continuamente. «Non sono mai stato un fan della prima ora di Bowie» – ammette Fresu – «Ma questo disco mi ha letteralmente conquistato con le sue raffinate e molteplici sperimentazioni, azzeccati intrecci di stili e generi, venature jazz, soul, rock nelle diverse declinazioni. Mi son buttato a capofitto e sono entrato per la prima volta nell’universo musicale di questo straordinario artista». Nel complesso «Heroes», pur muovendosi nel solco tracciato del musicista inglese, mostrandone le molteplici variabili espressive, diventa gradualmente un universo a se stante e fissa nuovi punti di ancoraggio disegnando un inedito diagramma bowiano: non c’è plagio o ricalco ma solo ispirazione, non c’è calligrafismo o «coverismo» spicciolo ma solo un’avveduta scomposizione e ricomposizione degli elementi costitutivi dei singoli pezzi che, attraverso l’arma della conoscenza, riposiziona l’opera del musicista inglese in una dimensione del tutto inedita. La cover-art image è una creazione di Giorgia Rizzo.

«THE SUN ON THE SEA»

Dalla collaborazione con Jaques Morelenbaum e Daniele di Bonaventura nasce «The Sun on the Sea», un disco realizzato insieme a due artisti con i quali Fresu ha condiviso più di un’esperienza: Daniele di Bonaventura negli ultimi anni è diventato una sorta di alter ego accompagnandolo in numerosi progetti; mentre il violoncellista brasiliano (spesso a fianco di musicisti jazz, ma anche compositori operanti in altri ambiti come Ryuichi Sakamoto) diventa il perno ruotante di questo progetto grazie alla sua ecumenica apertura verso le musiche di tutti i mondi possibili. Il loro innesto nel tessuto connettivo del musicista sardo riesce a dilatare il costrutto sonoro sondando le profondità di microcosmi espressivi apparentemente remoti ed irraggiungibili. Reminiscenze etniche, colori e ritmi brasiliani, citazioni dotte legate all’universo classico-sinfonico ed il talento di tre perfetti sodali trasformano un disco in un itinerario musicale dal fascino sottile ed intrigante: l’idea che il trio riesce a comunicare è quella di un’imbarcazione che naviga nell’oceano sospinta da correnti molteplici.

«The Sun on the Sea» contiene composizioni originali, così come classici prelevati dal repertorio di Jobim: «O que tinha de ser» e «Samba em preludio» riportate a nuova vita e calate in una suggestiva ambientazione più vicina alla tradizione popolare italica. «Preghiera In Gennaio» di Fabrizio De Andrè assume le sembianze di una ballata dai contrafforti lirici, struggente e ricca di pathos. «I nostri occhi, i nostri pensieri» e «Eg-Gua – Laude novella» due composizioni a firma Paolo Fresu, pur nella loro diversa concezione compositiva, diventano due poesie basate sul metro della melodia: la prima si sviluppa attraverso un afflato romantico e pensieroso che si arricchisce di stimoli e suggestioni mediterranee; la seconda mostra un doppio passo e nella seconda parte riecheggia a talune sonorità tardo-rinascimentali. «Un valzer a Lapedona» di Daniele di Bonaventura emana tutto il fascino di piccolo mondo antico, mentre «Ar livre» di Jaques Morelenbaum cerca di tracciare i contorni di un’ipotetica «terza via» dove l’aulicità del violoncello viene stemperata dal tocco morbido e jazzato di Fresu e dal contrappunto vagamente retrò del bandoneón. Nel complesso l’album si sostanzia come un lavoro certosino basato su intarsi sonori impreziositi da una perfetta cesellatura strumentale e da una ricca armonizzazione collettiva. La costruzione è stata articolata e sofferta a causa delle distanza: Fresu e di Bonaventura operavano in Italia, mentre Morelenbaum in Brasile, ma il tutto è stato ampiamente compensato, stimolato ed ampliato dai mezzi tecnologici che consentono il lavoro decentrato. La copertina di «The Sun on the Sea» è opera dell’ illustratore sardo Carlo Gambarresi,

«HEARTLAND»

L’album ristampato per l’occasione è «Heartland», uscito per la Universal Francia nel 2001 e realizzato con il cantante David Linx ed il pianista Diederik Wissels. Un episodio fondamentale della carriera di Fresu che rischiava di cadere nel dimenticatoio. Un album rarefatto pieno di lirismo e poesia che aveva ottenuto importanti riscontri di pubblico e di critica specie nel paese transalpino, grazie alla riuscita comunanza fra le varie anime del trio supportato da un quartetto d’archi e da una decisa retroguardia ritmica rappresentata da Palle Danielsson e dal compianto Jon Christensen. La forza di «Heartland» poggia sull’asse di un ibrido amalgama tra improvvisazione di matrice jazz, musica sinfonica e canzoni dai connotati molto teatrali interpretate da David Linx con un aplomb quasi da crooner. Tra i momenti salienti dell’album segnaliamo «Here Be Changes Made», a firma Fresu-Linx, una ballata soulful che ricorda vagamente Al Jarreau, non tanto nelle caratteristiche vocali, ma nello sviluppo narrativo e nell’architettura strumentale di supporto. La title-track «Heartland» scritta da Diederik Wissels è una canzone pop’n’soul nel suo facile approccio melodico, ma aristocratica e signorile nell’arrangiamento esaltato da un complesso gioco pianistico a cui fa da contraltare la tromba di Fresu.

Con il suo inizio acapella e la progressione arricchita dalla sezione d’archi «Standing My Ground», musica e parole di David Linx, diventa un canto da opera teatrale brechtiana. «Solace» di Linx- Wissels è una coinvolgente song d’ispirazione jazz nella struttura melodico-armonica ma in grado di riversare sul fruitore una carica di travolgente soul, arricchita dai ricami di Fresu ed insanguata da un pianoforte vitale e zampillante di note: di sicuro uno dei climax dell’album. «Rest From The World» si manifesta come una soffusa ballata dalla profondità abissale, toccante nel canto e nell’incarnato sonoro, quasi un quadro dipinto in memoria di Chet Baker, dove Fresu e Linx si suddividono il compito, mentre il piano di Wissels traccia una simmetrica cornice ambientale. «Ninna Nanna Pitzinnu» chiude l’album trasportandolo in una dimensione apolide, nella quale antico e moderno coabitano e dove una nenia ancestrale assume quasi i connotati di un sofferente blues. Severino Salvemini, economista e professore ordinario di Organizzazione Aziendale all’Università Bocconi, pittore per hobby, è l’autore del dipinto ad acquerello presente sulla copertina.

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