Francesco Bettini

// di Guido Michelone //

Ascoltare – oltre musicisti, critici, fotografi, accademici – pure i direttori di festival, di rassegne, di locali e di jazz club è fondamentale per capire cosa sia il jazz e dove stia andando. Il caso di Francesco Bettini in tal senso risulta emblematico e confortante: da un quarto di secolo bell’e tondo è direttore artistico del Jazz Club Ferrara, ovvero da quando l’associazione ha sede presso il Torrione San Giovanni, bastione delle mura rinascimentali estensi, patrimonio Unesco. Dal 2013 eredita da Max Mutti la direzione artistica del Bologna Jazz Festival, tra i migliori nel nostro Paese. Da una quindicina d’anni svolge anche il ruolo di consulente artistico per il Festival jazz di Albinea, per Elba Isola Musicale D’Europa, per la programmazione jazz del Centro Unipol Bologna e di recente per la Fondazione Mast di Bologna. Ma occorre sentire da lui direttamente cosa sia un festival e osa avviene davanti o dietro le quinte.

D In tre parole chi è Francesco Bettini?

R Onesto lavoratore dello spettacolo.

D A che età e come hai scoperto il jazz?

R Credo che il primo concerto jazz mai ascoltato in assoluto sia stato quello della Big Band di Dizzy Gillespie all’Arena Sterisferio di Macerata. Avrò avuto undici o dodici anni, mi ci portò mia madre approfittando dell’invito di amici, lì residenti, che andammo a trovare nel corso di un’estate prevalentemente trascorsa in villeggiatura sul Conero. Me lo ricordo ancora nitidamente, il suono, lo swing, il blues feeling, la gioia, il gioco. Poi per alcuni anni più niente, non vengo da una famiglia di melomani, in casa bei dischi, ma jazz poco o nulla, si ascoltavano il White Album e Stg.Pepper dei Beatles, Don Juan’s Reckless Daughter di Joni Mitchell, Song in the Key of Life di Steve Wonder, i Pink Floyd, un po’ di rock classico. Quindi il jazz, al di là di quel concerto di Dizzy, non perventuto. Tuttavia in città pullulavano le occasioni e finalmente misi il naso e le orecchie in alcuni dei concerti organizzati negli anni Novanta da Alessandro Mistri, allora direttore del Jazz Club Ferrara, in breve ne rimasi folgorato e da lì cominciai un percorso di ascolto a ritroso dal rock, che all’epoca era il mio riferimento primario, al jazz rock, la Weather, Miles, Coltrane, Monk, Parker, e via via in giù fino al jazz tradizionale, per poi rimbalzare di nuovo avanti nel jazz allora contemporaneo.

D Ha ancora un senso oggi la parola jazz? Se sì perché? Che idea hai tu del jazz quale espressione artistica e culturale?

R Se per Jazz si intende quello cristallizzato, in un qualche modo classicizzato e lo si fa coincidere con specifiche caratteristiche legate alla sua tradizione novecentesca e alla sua radice afro americana, non ci può essere dubbio nel definirlo tale. Ma non avrei alcun dubbio a definire jazz anche tutto ciò che in un percorso trasformativo attinge, rielabora e rinnova qualunque linguaggio musicale. Può essere definito jazz anche il modo in cui ci si pone nella vita, un certo sense of humor, l’attitudine a scovare la relazione tra le cose, la rapidità di intuizione, l’interazione istantanea con lo spazio, il tempo, il mondo circostante.

D Dei lavori da te intrapresi quali ritieni siano i più gratificanti o esemplari per il tuo contributo alla vita jazzistica? Come si diviene e poi come si fa il Direttore di un Jazz Club?

R Nell’ambito della produzione musicale li ho fatti praticamente tutti (e molti li continuo a fare) e tutti hanno piena dignità e sono tra loro correlati. Segreteria, ufficio stampa, tesoreria, fonica, direzione di produzione, il “bravo presentatore”, l’elaborazione del palinsesto, il booking, il road manager, eccetera. La cosiddetta filiera è fondamentale in tutte le sue parti e il fine ultimo è che queste dialoghino e si trovino in armonia. Non può esistere e perpetrarsi nel tempo un gruppo di lavoro che non sia anche e soprattutto un gruppo di amici, stetti attorno ad un obiettivo comune e senza mai dimenticarsi che prima di tutto bisogna divertirsi. Sono diventato direttore artistico per caso e continuo a non percepirmi tale, cerco più che altro di armonizzare e di soddisfare le più svariate esperienze di ascolto della comunità di appassionati e musicisti che ruota attorno al jazz club, approfittando delle tournée europee che riesco a intercettare, tutto qui.

D Qualche aneddoto buffo o curioso in tutta la tua carriera?

R Moltissimi, troppi, e molti irricevibili in un’intervista. Ne scelgo uno solo. Alberto Alberti, uno dei miei mentori e storico organizzatore, mi chiede di fargli da roady per un breve tour estivo in Italia del gruppo di Harold Mabern. Appuntamento nel pomeriggio, due giorni dopo, a Imola dove avremmo dovuto recuperare un van a noleggio, per poi prelevare il trio in aeroporto e partire con il tour. Così propongo a un mio amico e a una mia amica (che poi sono i miei più stretti colleghi al Torrione tutt’oggi) di andare sui colli imolesi a trascorrere la mattina precedente all’appuntamento per fare il bagno al fiume. Tornati alla macchina troviamo il finestrino rotto e mi accorgo che mi è stata rubata la valigetta preparata per il tour. In pratica ero in ciabatte, pantalocini e punto, neanche la t-shirt. Chiamo Alberti e gli dico che è tutto ok, per il tour ci sono, ma che sono praticamente nudo. Dal noleggiatore Alberto mi porta dei vestiti totalmente improbabili, di almeno due taglie in più, e faccio tutto il tour vestito come Johnny Depp e Benicio Del Toro in Paura e delirio a Las Vegas (non che in realtà io vesta molto diversamente). Approdiamo ad Arezzo in tarda serata e l’hotel in cui dovevamo alloggiare ha le camere solo per gli artisti. Dormo in furgone. Un buon inizio dopo una giornata all’insegna dei contrattempi. Il giorno dopo la band ha il sound check alle 11 del mattino, perché il concerto è previsto alle 12 in un palco minore della manifestazione. Arriviamo sul posto, un campo da calcio provinciale scalcagnato, in cui oltre al palco e a un paio di centinaia di sedie stanno bivaccando e ancora dormendo decine e decine di persone. Alberti aveva venduto con un ricatto il trio di Harlod Mabern ad Arezzo Wave, millantando che se volevano nell’arena grande Miriam Makeba, avrebbero dovuto trovare una venue anche per Harold. In pratica gli organizzatori, a cui di Mabern non fregava un cavolo, lo piazzarono di mattina in un’area adibita a camping libero.

D Mamma mia, che tragedia o che imbarazzo, no?

R Spiego al Maestro il perché fossimo in un contesto del genere e così totalmente fuori luogo, e con la coda tra le gambe provo a giustificarmi in tutti i modi per la situazione paradossale. Ma, almeno in apparenza, sia lui che la band (vestiti di tutto punto nonostante il caldo torrido) non sembrano eccessivamente infastiditi, anzi Harold mi dice, vediamo se il jazz arriva a questo pubblico rock qui per caso. Fanno un sound check di tre minuti che contribuisce a svegliare gli ultimi saccopelisti ancora sopiti e alle dodici in punto partono con un modale tyneriano abbestia. Un minuto dopo l’altro, un brano dopo l’altro, la gente si avvicina sempre di più al palco attratta dalla musica e soprattutto dalla veemenza delle introduzioni ai brani di Mabern, che puro in stile da preacher, racconta degli eroi del jazz a cui si ispirano le sue composizioni. Ne viene fuori una lezione di storia della musica afroamericana, corredata di aneddoti e di brani infuocati, alla fine più di cinquecento giovani in delirio a reclamare il bis. Lo esegue e poi invita tutti a lato palco dicendo che sarebbe stato disponibile a incontrarli uno a uno e a consigliarli come approcciarsi al jazz, cosa ascoltare, come innamorarsi di questo linguaggio che a lui ha cambiato la vita. Io e la sezione ritmica, lo pressiamo per andare a nutrirci, erano le 15 ormai, e ancora aveva un cospicuo capannello di ragazzi e ragazze attorno a sé. Ci disse di andare tranquilli, che lui aveva da fare e che prima o poi avrebbe mangiato, ma alla fine della sua missione. Che dire: The Real Shit!

D Che lezione di vita! E di musica! Stupefacente! Cambiando argomento, invece, con quali modalità (anche personali) ti rapporti con i tuoi ‘colleghi’ direttori di altre città e  con chi comunque lavora al tuo fianco o in contesti similari?

R Tendo a innescare collaborazioni. Non avrebbe senso il contrario. Immaginando percorsi comuni, si ammortizzano i costi, si riesce a far circuitare produzioni originali e spesso a incrociare i pubblici e a non fossilizzarsi proponendo solo specifici linguaggi.

D Ritieni che in Italia vi siano spazi interessanti per contribuire ad accrescere o sviluppare una vera cultura del jazz (o sul jazz)? Esiste secondo te un jazz italiano a livello musicale? E uno europeo? Cosa li contraddistingue dagli americani?

R Si è tutto livellato, tutti hanno accesso a tutto, la scolarizzazione ha abbattuto distanze e differenze. Piuttosto direi che esistono aree, poli attrattivi, dove insistono comunità di musicisti la cui reciproca collaborazione genera bolle estetiche peculiari. Tutto ciò avviene prevalentemente nelle grandi metropoli, ma può succedere anche nella provincia dell’impero. Nel suo piccolo Ferrara ha un suo nucleo di musicisti (molti dei quali venuti da fuori) e si può dire che abbia una sua scena, quella che in definitiva anima diverse delle jam session e dei concerti proposti al jazz club. Il Torrione, come altri luoghi fisici in Italia, fa parte di un numero, magari non consistentissimo, di quegli spazi virtuosi in cui si può sviluppare una vera cultura del jazz e della musica contemporanea. Solo in Emilia te ne potrei citare almeno altri quattro o cinque, quindi tutto sommato direi che lo scenario non è desolante, anzi.

D Certo, l’Emilia è sempre l’Emilia, direi l’Emilia-Romagna, anche! Cambiami ancora tema: come ti relazioni all’oggetto disco, anche a livello personale?

R Continuo a comprare sia vinili che cd, più gli ultimi che i primi. Non è solo l’oggetto in sé o il libretto, che certo non guastano, ma il fatto che ascoltare digitalmente spesso ti porta a saltare di palo in frasca e a non godere del progetto musicale nella sua completezza.

D Come penultima domanda, forse banale, ti chiedo un a tua top five o top ten dei jazzmen più amati e, se ti va, dei tre dischi da isola deserta.

R Non essere scontati è impossibile. Miles, Coltrane, Monk, Mingus, Evans, Gil e Bill, Ornette, Ellington, Basie, Shorter, Jarrett, Chick, eccetera…Quanto ai dischi ancora più difficile e comunque in un’isola deserta dubito ci sia corrente elettrica.

D E un’ultima domanda o meglio un giudizio (anche sintetico) sull’Italia di oggi a livello di arte e cultura.

R Di recente un sottosegretario del Ministero della Cultura ha detto che andrebbe sostenuto anche il jazz, ma in quanto espressione artistica non autoctona, sarebbe l’ora che venisse finanziato dal paese dove è nato. Con queste premesse…

Francesco Bettini

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