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Nel progetto di Stefano Di Grigoli, sassofonista tenore dalla tempra audace, non c’è dispersione cervellotica ma solo densità audiotattile che si estrinseca attraverso un mainstream rispettoso della regola aurea della sintassi jazzistica con marcate capacità di adattamento all’attualità.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Da Charlie Parker in avanti il sassofono in tutte le sue tonalità è diventato lo strumento principe del jazz moderno. Nuove dinamiche nell’ambito del jazz contemporaneo, però, indicano restrittivamente il sax come l’epitome del post-bop, ma a torto. È pur vero che il liquame contaminato degli ultimi anni, messo in circolo da una certa discografia, deviata dalle surreali filosofie scandinavo-germaniche, ha trascinato il jazz lontano dal suo alveo naturale. Per contro, il sassofono diventa una garanzia, non necessariamente di aderenza ad uno stile ortodosso o al vernacolo tradizionale, ma di una capacità espressiva che, quanto meno, non tradisce, se non per partito preso, gli assunti basilari della musica sincopata afro-americana. Trovarsi fra le mani un album come «Tenor Legacy Abstract» è simile ad un piacevole risveglio dopo tanti incubi sonori, opprimenti e schiacciati in un minimalismo strumentale e caparbiamente eterodosso.

Nel progetto di Stefano Di Grigoli, sassofonista tenore dalla tempra audace, non c’è dispersione cervellotica ma solo densità audiotattile che si estrinseca attraverso un mainstream rispettoso della regola aurea della sintassi jazzistica con marcate capacità di adattamento all’attualità. Distribuito dalla Music Diffusion, l’album è un tributo ideale ad una forma espansa di jazz che tocca tutto l’asse della tradizione bebop, hard bop, boogaloo a presa rapida e post-bop, attraverso nove tracce, di cui sei originali, cinque vergati da Di Grigoli, una dall’omologo Giordani e tre standard di sicuro effetto prelevati dal libro dei sogni della tradizione afro-americana, ad iniziare dall’opener che rivista la celebre «Speak No Evil» di Wayne Shorter, quasi un manifesto programmatico, ricollocandola in una dimensione più prossima al soul jazz, magnificata dalla presenza dell’Hammond che ne amplia i contrafforti esoterici, ma la contempo, con le sue sonorità churching, lo pone in una dimensione più mistica. Di Grigoli è accompagnato nel suo peregrinare da Antonio Giordano, sassofono tenore in seconda, che funge da contraltare, da sostegno e da mirror alle escursioni del band-leader, Angelo Cultreri manovratore dell’organo e Giampaolo terranova alla batteria. «Blues To Day», è un post-bop ultramoderno teso su una corda che lega Shorter a Coltrane, ma senza ricalco o manierismo scolastico: i due sassofoni se la giocano con garbo, incoraggiati da una melodia a presa rapida e innescati dal kit percussivo che non fa rimpiangere la mancanza di un basso o di un pianoforte. Se non fosse per la regolarità dell’impianto accordale, si potrebbe pensare ad un essenzialismo quasi ornettiano.

«Di Gri-Gio», una marchio di fabbrica che riporta alla mente molti elementi del catalogo Blue Note ed un flessuoso inciso a tratti Rollinsiano. «Abstract», title-track in pectore, costruita su un groove al piccolo trotto, disperde nell’aria sentori di boogaloo alla Larry Young e Jimmy Smith, un terreno assai fertile alla compliance fra organo e sassofono. «Why», unico inedito firmato dall’altro sassofonista in squadra, si rivela come una song soffusa e ricoperta di foglie ingiallite dai colori autunnali, in cui i due tenori, nei panni di perfetti balladeer, si fanno promesse per l’eternità, mentre l’organo ne trapunta le cuciture con tocco vagamente ascetico. «Rebyrt» è un mid-range soulful, sospeso ed incapsulato in un’aura shorteriana che vaga negli angiporti notturni di una città avvolta nella nebbia, nei misteri e nelle inquietudini dell’anima. «Jumping» si esalta in un costrutto dal groove tagliente, cadenzato e perpetuo, intorno al quale il kit percussivo non lascia acqua stagnate, ma soprattutto forte di un tema metropolitano e funkfied, a cui il l’organo garantisce ottimi valori di PH-acido. «Gantz», firmata dal trombonista Hal Crook, è un insolito standard rivisitato da Di Grigoli e soci, che per sua natura sviluppa un affollato habitat post bop anni Novanta, fitto di funky-situation, a metà strada tra Jerry Bergonzi e Roy Hardgrove. In chiusura, «Evidence», un omaggio a Monk, con un evergreen che l’organo ricolloca in un’inedita dimensione, mentre il sax risveglia il fantasma di Charlie Rose. «Tenor Legacy Abstract» di Stefano Di Grigoli, non è un lavoro che altera e rivoluziona in maniera epocale i valori chimico-fisici del jazz; per contro è un progetto di notevole cubatura esecutiva, immediato nella fruizione ed a facile combustione, privo di fughe incontrollate o di inutili mugugni eurologici ed orpelli eurodotti, un bop contemporaneo infarcito di atmosfere soul jazz e black-entertainment, mai banale e prevedibile.

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