Alberto Buzzurro

di Guido Michelone

Mi è difficile parlare ‘obiettivamente’ di Alberto perché ci lega un’amicizia e spesso una collaborazione che dura ormai da qualche decennio: di lui apprezzo in primis il sottile umorismo tipicamente ligure, fatto di rapide battute, ma gli invidio anche il coraggio con cui esprime i giudizio su certo jazz, lui da sempre vicino all’avanguardia e dunque lontano da tanto mainstream tipico del ‘classico’ jazzista che ‘non ha niente da dire’ (uso un a sua espressione che mi piace molto e che ogni tanto certi jazzofili dovrebbe tener conto prima di esaltare certi dischi. Detto questo, è sempre un piacere ascoltare Alberto quando affronta temi cari a tutta la comunità della musica italiana che guarda avanti e non indietro, magari per valorizzare l’autentica world music – parola da noi mai usata ma connotante ad esempio il mondo della canzone extraeuropea da lui amata – e non il solito jazzetto accademico.

D Ti chiedo subito, visto che sei esperto in entrambi i settori: ami più il jazz o la canzone d’autore e perché?

R Al jazz sono arrivato prima, a sedici anni, alla canzone d’autore a diciotto, ma fare una classifica non avrebbe senso, anche perché differenti, sotto diversi aspetti, sono le corde toccate da ciascuna delle due aree. Che peraltro con gli anni si sono decisamente allargate: amo il tango, il fado, la musica del bacino mediorientale (in senso molto lato), eccetera eccetera, senza pormi certo problemi di “competitività”, e quindi di preferenza.

D Cosa ascoltavi da bambino e poi da adolescente? Come sei arrivato al jazz?

R Ho iniziato ad avere un orecchio diverso, più consapevole, nei confronti della musica (in questo caso la canzone) al festival di Sanremo del 1967, proprio quello del suicidio di Tenco (che mi colpì moltissimo), vale a dire un autore che avrebbe poi giocato un ruolo tutt’altro che secondario nel mio gusto “adulto” (anche come emblema, visto che frequento il Club Tenco da quarant’anni, a cui – il Tenco, non gli anni – sono molto legato e alla cui attività, quando mi viene chiesto, collaboro con piacere). Ero un ragazzino di neanche undici anni, ma lì ho iniziato a capire che la musica avrebbe giocato un ruolo importante nella mia vita. A quattordici sono passato in un baleno (tipico dell’età, ma anche di quegli anni, visto che era il 1970) da Sanremo a Jimi Hendrix, Led Zeppelin, Santana e compagnia suonante, bruciando poi le tappe dai quattordici ai sedici, età in cui, con un’autentica folgorazione sulla via di Damasco, sono passato appunto al jazz.

D E questo repentino passaggio al jazz cos’ha comportato?

R In un paio di settimane ho venduto tutti gli LP di prog (Pink Floyd, EL&P, Amon Duul, Jethro Tull, Colosseum, ma anche PFM, Banco, ecc.) e ho iniziato a comprare dischi di Davis (il primo è stato Bitches Brew, traino ideale per il passaggio), Coltrane, Ornette, eccetera. Fatto sta che nel giro di un anno scolastico sono arrivato a Ellington e Armstrong, in un viaggio a ritroso tipico della mia generazione. Comunque, per venire alla seconda domanda, il principale punto di passaggio sono stati di dischi dei King Crimson con i vari Keith Tippett, Marc Charig, Nick Evans, oltre ai saxes di Elton Dean, quindi Soft Machine (Fifth è l’LP più vecchio che conservo ancora oggi, dopo 52 anni!) e poi Nucleus, Centipede, eccetera.

D Raccontaci ora in breve la tua carriera da critico, giornalista, reporter, eccetera.

R In breve: è una parola! Diciamo che nell’autunno 1981 ho mandato due articoli – un saggio sul duetto e un pezzo più breve su Sam Rivers – a «Musica Jazz». Sono stati accolti positivamente entrambi, tanto che quello su Rivers mi è stato chiesto di farlo diventare una monografia completa. Quella è stata la mia prima copertina sulla rivista, giugno 1982, anche se è uscito prima, in aprile, il saggio sul duo, il mio primo articolo pubblicato appunto su Musica Jazz, con cui dopo quarantadue anni e svariati direttori (da Arrigo Polillo a Luca Conti) collaboro tuttora. A fianco, ho intrapreso e poi abbandonato (non tutte: un paio sopravvivono) innumerevoli collaborazioni, con quotidiani e periodici, siti web, enciclopedie, saggi in volumi collettivi, parecchia radio sulla RAI… Eccetera, eccetera…

D Hai fatto anche qualche ufficio stampa: come si lavora nel jazz in questo caso?

R In realtà molto poco: non è il mio mestiere, ho sempre voluto avere le mani libere.

D Nella tua città d’azione hai inventato e diretto un festival molto originale. Svelaci qualcosa di quest’esperienza.

R In realtà io sono nato e vissuto a Genova fino ai ventidue anni ed è lì, in certi negozi di dischi e in certe sale-prova (dove sono passati qualche anno prima anche personaggi come Ivano Fossati e Vittorio De Scalzi, al quale mi ha legato una forte amicizia), che mi sono formato. Poi mi sono trasferito a Tortona, dove, sì, ho diretto per un po’ di anni Jazz fuori tema, che in linea col titolo intendeva appunto mettere a decantare assieme il jazz e altre forme d’arte: pittura, letteratura, danza, cinema, ma anche, semplicemente, musiche extra-jazzistiche. Ho avuto Steve Lacy, il duo Trovesi/Coscia, che è nato lì, l’altro duo fra Borah Bergman e Stefano Pastor che ha dato lì il suo primo concerto (poi uscito su CD in America, unica loro testimonianza), Mark Dresser, tantissimi italiani, sempre commissionando qualcosa di inedito, che ha coinvolto di volta in volta artisti (o repertori) extra-jazzistici, come i Beatles (ovviamente come repertorio…), Riccardo Tesi, Sergio Staino, Alessandro Haber, Gianmaria Testa, eccetera. Poi a Tortona (qualche volta anche fuori) ho organizzato anche altre cose. A Tortona, per esempio, nel 1995 è nato PAF, ovvero il trio Fresu/Salis/Di Castri, fra l’altro concordato con Paolo al Premio Tenco. Sì, non ho mai amato gli steccati, se non per oltrepassarli!

D Hai intervistato molti musicisti, che poi hai antologizzato in un bel libro. Confessaci qualche aneddoto o curiosità al proposito. Qualche bizzarria di qualche intervistato?

R Anche qui sarebbe troppo lungo. Un po’ di questi aneddoti li ricordo proprio nell’introduzione di Parlami di musica, il volume a cui ti riferisci, uscito nel 2008 per Zona. Per esempio l’intervista (che infatti nel libro non c’è) in cui Don Cherry, reduce da due notti insonni (mi aveva avvertito), si addormentò sul più bello. Oppure molto più di recente, la volta in cui l’assistente di Ornella Vanoni, dopo una bellissima intervista fatta a casa sua, mi disse papale papale: “Io ne ho viste tante di interviste con Ornella: non creda che siano tutte di questo livello, con questo interscambio”. Davvero un bel complimento, a cui io, schermendomi, risposi che era soprattutto merito dell’intervistata. In realtà la mia ricetta è semplice: mai partire con le domande scritte (l’ho fatto una sola volta, con Dave Brubeck, che sta nel libro, dove spiego anche perché quell’eccezione si rivelò poi estremamente opportuna), farsi un’eventuale scaletta di cose da chiedere comunque (poche), ma senza paletti, e seguire invece il percorso che l’intervista ti suggerisce. Parlando di interplay, che nel jazz è così importante, è il modo migliore per instaurarlo. E proprio come nel jazz, quindi, unire struttura a sana improvvisazione. E poi, seconda mia regola personale: mettermi sempre dalla parte del lettore, come se io lo fossi anche nel momento in cui invece conduco il gioco.

D Il jazz è morto o ancora esiste? Ha ancora un senso oggi la parola jazz? E in quale accezione?

R Il jazz è morto? Non credo proprio, e comunque gli sopravviveranno sempre i musicisti, anche se per ragioni storico-evolutive non potranno più esserci i giganti, le figure mitologiche, del passato. E quindi ha ancora senso parlare di jazz, magari non di BAM [Black American Music], che mi ha sempre dato l’idea di una sorta di lega (con la L rigorosamente minuscola) al contrario. Il jazz è oggi una musica di sintesi, come tante altre, del resto: come in un buon piatto in cucina, è sempre questione di dosare correttamente (dopo averli scelti) i vari ingredienti.

D E si può parlare di ‘jazz italiano’? Esiste qualcosa di definibile come ‘jazz italiano’?

R Esiste nel momento in cui si porti dentro qualcosa di proprio, che non è solo la melodia, il canto, la discendenza dall’opera lirica, come spesso si tende a dire. C’è anche quello, ma le radici nostrane sono ben più ampie. Citavo prima Gianluigi Trovesi e Gianni Coscia (e potrei fare tanti altri nomi): il loro è sicuramente etichettabile come jazz italiano. Al punto che molti puristi, una quarantina di anni fa, quando sono venuti fuori, negavano che si trattasse di jazz. In questo caso due indizi bastano a fare una prova…

D Cosa distingue l’approccio al jazz di americani e afroamericani da noi europei?

R Quello che ho appena detto: in ciò i francesi (Michel Portal in testa, e poi Louis Sclavis, e altri) sono maestri inarrivabili, ma anche John Surman, Jan Garbarek, sempre limitandoci agli stranieri.

Il jazz deve parlare, attraverso i suoni, di temi sociali, politici, ambientali, filosofici?

Lo può fare senz’altro, basta che non lo usi come scudo, come captatio benevolentiae: negli anni Settanta, in cui varrà la pena di chiarire subito che io mi sono formato e che li ritengo un passaggio-chiave per la musica tout court, ci sono stati però numerosi musicisti di area jazzistica che hanno guadagnato consensi nel nome – come si diceva allora – di un certo discorso, nella misura in cui… eccetera eccetera. Il valore della musica, in quei casi, non era il primo elemento di valutazione, e questo costituisce sempre una trappola.

D In Italia il jazz si può legare alla canzone d’autore? E se sì in che modo?

R È una domanda che avresti dovuto farmi molti anni fa, quando sono stato uno dei più convinti assertori di questo cocktail, come rilettura di un repertorio e collaborazioni concrete, certamente per il fatto di appartenere ad entrambe le sponde. Ti avrei risposto di sì, attraverso l’intelligenza e anche qui senza furbizia. Quella che è poi montata via via, generando una moda che come tutte le mode si porta appresso più vizi che virtù. Poi Rava con Paoli o Fossati mi piace, Fresu con la Vanoni idem (faccio solo un paio di esempi, storici), il mettere il jazzista di turno come il prezzemolo, perché si sa, il jazzista padroneggia questa pratica quasi messianica che è l’improvvisazione (questa sconosciuta, ai più), m’interessa e mi convince molto meno. Se non c’è invenzione e scambio reale fra le parti, meglio che ognuno se ne stia a casa sua.

D Perché non ci sono più i cantautori di una volta, almeno come personaggi di grande popolarità?

R Beh, non ci sono neanche più le stagioni di una volta, non vedo perché i cantautori dovrebbero essere da meno! A parte le battute, il motivo è lo stesso del jazz: qui come là ci sono ragioni storico-evolutive che hanno richiesto e alimentato certe figure. E non è un fatto di popolarità, ma proprio di spessore, di peso specifico. Poi, purtroppo, per raggiunti limiti di età, molti se ne sono andati. L’ultimo genio della canzone d’autore italiana si chiama Vinicio Capossela. Peccato che anche lui viaggi ormai spedito verso i sessanta (è del 1965 e io ho avuto il privilegio di seguirne la carriera fin dalla sua prima uscita al Tenco 1990).

D Cosa ci dici infine dell’attuale situazione in cui versa la cultura italiana, di cui il jazz ovviamente fa parte da anni?

R Ti rispondo col titolo che avevo dato tantissimi anni fa a un articolo per un settimanale tortonese, allargandolo nello specifico al panorama nazionale: Ma cultura si scrive con la K o con la Q? Abbiamo un ministro che penso possa dirimere agevolmente la questione…

Alberto Buzzurro

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