Franco Fabbri

Benché poco citato dallo star system e ancor meno celebrato dai media ufficiali, Franco Fabbri da almeno trent’anni sta alla musicologia e alla popular music come oggi Alessandro Barbero sta alla storia medievale, Massimo Cacciari alla filosofia, Gabriella Greison alla fisica quantistica. Ma si sa l’amichettismo italiano non è certo tenero, gentile, magnanimo o generoso con chi non risulta di stretta osservanza al peggio mainstream intellettuale o con chi non teme di indicare in Karl Marx un referente soprattutto etico. Franco Fabbri, in tal senso e contro ogni tentazione ‘consumista’, possiede un curriculum straordinario riguardante l’universo sonoro a 360 grandi: musicista in primis, ovvero compositore, cantante, multistrumentista, band leader, operatore culturale, studioso, critico, didatta, pedagogo, docente universitario, militante di una sinistra libertaria come egli stesso afferma: “come marxista che ha studiato i testi ‘classici’, conosco la differenza tra socialismo e comunismo, e sì, volendo essere preciso direi che mi sento soprattutto un socialista conseguente”. E in questo recentissimo colloquio – apposta per Doppio Jazz – con Franco Fabbri si parla a briglia sciolta, ma con l’autorevole serietà che egli stesso mette in ogni frase, in ogni parola.

D In tre parole chi è Franco Fabbri?

R Un lavoratore della musica.

D Cosa ascoltavi da bambino e poi da adolescente? In quali ambienti?

R Nei miei ricordi più lontani c’è musica brasiliana (“Luar do Sertâo”, “Delicado”, “Tico tico”), la “Rapsodia svedese” (dall’orchestra di Percy Faith), la Terza di Brahms e la Nona di Dvorak, colonne sonore di film intorno al 1960 (I magnifici sette, Lawrence d’Arabia, Il più grande spettacolo del mondo, Il ponte sul fiume Kwai), Elvis Presley, Paul Anka, Neil Sedaka, il Kingston Trio, i Brothers Four, e poi il primo Gaber, Bindi, Paoli, Endrigo, Tenco, e infine Duane Eddy e gli Shadows. Ascoltavo dischi in casa e alla radio.

D Come sei arrivato alla musica da musicista rock (o beat, come si diceva allora)?

R Come musicista (intendo, suonando e cantando) con gli Shadows e poi con i Beatles, i Rolling Stones e gli altri gruppi della British Invasion, tra il 1963 e il 1965.

D Penso che esistano, a livello professionale, tre Franco Fabbri: il musicista (e organizzatore); lo studioso; e il didatta. Credo, uno concatenato all’altro: come sono avvenuti i tre passaggi?

R Come organizzatore ho iniziato formando e gestendo dei gruppi: prima gli Stregoni, poi gli Stormy Six. E poi, dal 1974, con la cooperativa l’Orchestra. Dal 1981-1982 con la IASPM (International Association for the Study of Popular Music). Ho studiato fin dall’inizio, ma i miei primi contributi autonomi sono della fine degli anni Settanta (il mio libro La musica in mano, 1978, e i primi saggi sulla teoria dei generi musicali). Viceversa, ho iniziato a insegnare con la Scuola popolare di musica dell’Orchestra dal 1976.

D Oggi come ti definiresti? Musicologo, storico della popular music, teorico o altro?

R Risposta non facile. Come a suo tempo Luigi Pestalozza non amo le risonanze positiviste (e anche l’inflazione) del termine “musicologo”. Ma è una categoria alla quale appartengo, formalmente, e dato che dentro e fuori gli studi sulla popular music la qualifica di musicologo è messa in questione, tengo a mantenerla. Poi, sono uno storico della musica (non solo della popular music) e anche un teorico (i lavori sui generi musicali e sulle forme della canzone).

D Che obiettivi ti eri posto quando hai iniziato a insegnare? Come hai inteso la popular music anche rispetto ad altre esperienze?

R Quando ho iniziato alla Scuola popolare di musica, l’obiettivo era di fornire a chi seguiva i corsi una visione ad ampio raggio delle musiche, in un momento in cui la tendenza era di fare di quelle scuole militanti uno strumento per imparare canzoni popolari e politiche (il termine “canto sociale” ancora non si usava). Insegnavo teoria e musica d’insieme; a volte in polemica diretta con altre scuole e altri insegnanti trattavo argomenti trasversali, che toccavano anche la musica classica, il rock, il jazz, la canzone d’autore. Il libro La musica in mano (che si può scaricare dal mio sito su Academia) è la sintesi di quel metodo. Piacque, almeno in parte, a Gino Stefani; ogni tanto incontro qualcuno che mi confessa che ha cominciato a “capire la musica” da quel testo. Quando poi ho iniziato all’università (a Trento, a Savona, a Milano, a Torino) l’oggetto era principalmente la popular music, concetto alla cui complessa definizione – o non-definizione – avevo lavorato con altri (Tagg, Shepherd, Middleton, Frith, Fiori, eccetera) a partire dalle prime conferenze della IASPM (Amsterdam 1981, Reggio Emilia 1983, Montreal 1985). Direi che poi, negli ultimi tempi, sono tornato all’approccio trasversale dei tempi dell’Orchestra.

D A Torino, il tuo successore Jacopo Tomatis, tratta con nonchalance la trap: ma è possibile per le nostre generazioni (’68 e post’-’68) mantenere un giudizio ‘oggettivo’ e non farsi tentare dal ripristinare le tesi adorniane sulla pochezza di certe musiche di consumo?

R Non so cosa intendere con nonchalance, perché non ho mai assistito alle lezioni di Tomatis sulla trap. Ma Jacopo è stato mio allievo dalla triennale alla magistrale al dottorato, e lo stimo. Non si può ignorare la trap, e non si può comunque condannare un genere in blocco. Il compito di chi studia la popular music (e qualunque altro genere) non è di certificare che cosa è buono e cosa no, né di creare dei canoni, ma di aiutare a capire. Anche le schifezze, naturalmente.

D Insegnando anch’io Popular in Conservatorio per poche ore accanto alla più corposa cattedra di Storia del Jazz, trovo che proprio il jazz per alcuni decenni sia la popular music per antonomasia degli Stati Uniti; sei d’accordo?

R “Per antonomasia” mi sembra eccessivo. In quegli stessi decenni c’era la produzione dei compositori di Tin Pan Alley (le canzoni, i musical), c’era la musica hillbilly, c’era il blues (e non identificherei né gli standard né il blues con il jazz), c’era la musica da film. Ma sicuramente direi – non lo dico solo io… – che il jazz sia stato popular music a tutti gli effetti, fino a quando non ha cambiato funzione, in direzione di una musica d’arte africano-americana.

D Hai avuto modo di parlare di jazz ai tuoi allievi? Come lo recepiscono?

R Sì, spesso. Il mio Around the clock. Una breve storia della popular music, che uso come libro di testo, dedica uno spazio limitato al jazz solo perché è nato come una serie di capitoli del quarto volume della Storia della musica di Alberto Basso, dove c’era anche una sezione tutta dedicata al jazz (a cura di Maurizio Franco). Non sono mai riuscito a integrare il mio libro con le molte cose (oltre al jazz) che mancano o che sono trattate troppo in breve, a causa di quell’origine, anche se così com’è resta comunque unico. In ogni caso, a lezione parlo di jazz, in vari punti dei miei corsi. Agli allievi e alle allieve piace che il jazz sia inquadrato come una delle culture musicali del Novecento, insieme alle altre.

D Ha ancora un senso oggi la parola jazz?

R Luciano Berio disse in un’intervista che per lui “musica” era qualunque attività intorno ai suoni che una comunità chiami “musica”. Lo stesso si può dire del jazz, penso.

D E si può parlare di ‘jazz italiano’? Esiste qualcosa di definibile come ‘jazz italiano’?

R A me sembra, e se ne parla da decenni (nell’Orchestra avevamo vari rappresentanti del jazz italiano degli anni Settanta e Ottanta, e abbiamo pubblicato i loro dischi: Mazzon, Rusconi, Geremia, Centazzo, Liguori, Schiano, eccetera). Ma non vorrei esprimere un giudizio da outsider: forse c’è ancora qualche critico che nega che esista un jazz italiano? Che l’unico jazz sia quello “autentico” (alla Polillo, per intenderci)?

D Benché gli Stormy Six non fossero un gruppo fusion o legato in qualche modo al jazz, c’è qualche episodio molto interessante: nel concept album L’Unità ricordo un bel assolo di Claudio Fasoli, di lì a poco fondatore dei Perigeo; come ricordi quella seduta?

R Ne L’Unità, in “Garibaldi” e in “Sciopero!”, c’era un’orchestrina di fiati che ricollocava lo stile di New Orleans tra il 1861 e il 1863 nell’ex Regno delle Due Sicilie: quello spiazzamento mi diverte ancora adesso. C’erano Glauco Masetti, Gianni Bedori, Nicola Castriotta e Giuliano Bernicchi. Poi, ne La manifestazione c’era quel lungo bellissimo assolo di Claudio Fasoli al sax soprano. Non ricordo il suono del soprano in altri dischi di gruppi rock italiani dei primi anni Settanta. Il contatto con la scena milanese del jazz, allora, era mediato da Massimo Villa, il bassista degli Stormy Six, che frequentava il Gruppo Contemporaneo di Guido Mazzon. Fasoli fu perfetto, non ci fu bisogno di spiegargli niente, e fece fare un salto di qualità a un pezzo che era nato come una ballad rock lenta e abbastanza “pesante”. Claudio suonò anche nella “Suite per F&F”, che aveva una sezione che tendeva abbastanza verso il jazz.

D Mi sembra di capire che i vostri rapporti con il mondo del jazz allora fossero solidi, concreti,m inventivi…

R Comunque, anche se gli Stormy Six non hanno mai “fatto jazz”, il loro album del 1976, Cliché, fu creato con Guido Mazzon e Tony Rusconi, e improvvisazioni “free” si trovano in Macchina maccheronica. E tornando al sax soprano, suonato da Renato Rivolta, fu uno strumento caratterizzante de l’Apprendista (1977). Maureen Paton, la critica del Melody Maker, ne fu molto colpita in un concerto a Londra del 1978, e questo suggerisce che all’epoca l’abbinamento sax soprano/rock non era comune come sarebbe diventato dopo i dischi di Sting con Branford Marsalis.

D Cosa distingue l’approccio al jazz di americani e afroamericani da noi europei?

R Rischio di dire delle grosse banalità. Ho conosciuto i jazzisti italiani che hanno lavorato con l’Orchestra, oltre a Gaslini e a qualcuno della prima generazione. Ma ho parlato di musica molto più a lungo con musicisti statunitensi, perché per anni ho tenuto interviste pubbliche in vari festival (Angelica, Ravenna, Bergamo): con Cecil Taylor, Anthony Braxton, Butch Morris, Uri Caine, John Zorn, Leo Smith e molti altri (inclusi, fra l’altro, musicisti “non jazz” come Terry Riley, LaMonte Young, Steve Reich, Pauline Oliveros). La differenza principale mi sembra che stia nel rapporto con la tradizione europea (non solo eurocolta), che per i musicisti da questa parte dell’Atlantico non può essere rimossa (come la tradizione storica del jazz per gli africano-americani). Ma ci sono grandi differenze: Cecil Taylor mi disse che un momento essenziale della sua formazione fu quando sua madre lo portò a vedere uno spettacolo di balletto (russo, se non ricordo male), e Reich spiegò che secondo lui il compositore contemporaneo più importante era Pierre Boulez.

D Come giudichi infine dell’attuale situazione in cui versa la cultura italiana di cui jazz e popular music ovviamente fanno ufficialmente parte da non molti anni?

R Tremenda. In questo preciso momento stiamo cercando di difendere le scuole civiche di Milano (fra le quali quella di musica, con i corsi di jazz e di popular music) dallo smantellamento. E pensare che l’interlocutore (il “nemico”, direi) è il Comune di Milano. E intanto c’è l’attacco della destra per appropriarsi di tutte le istituzioni culturali. E, come ha detto una persona che stimo, se non si reagisce con determinazione e intelligenza, “quelli” resteranno al governo per altri vent’anni.

Franco Fabbri

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