L’evidente eclettismo del line-up mette a dimora ed irrora con un costante apporto di linfa creativa «L’albero della Vita», che affonda le proprie radici irradiandosi verso direzioni sonore e culturali molteplici.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Anni addietro in Svizzera fui colpito da un presentatore che, dopo aver introdotto in inglese un gruppo jazz-rock, concluse dicendo: «Mesdames et Messieurs, voilà la fusion». Un concetto che potremmo estendere al nuovo disco di Eugenio Mirti, «The Tree Of Life», esclamando: signore e signori ecco la fusion! Tutto ciò per indicare una musica ibrida la quale unisce istanze molteplici che, nello specifico, vanno dal rock-blues modello Jeff Back al jazz elettrico, dal funk metropolitano alla Prince, passando per Zawinul dei Weather Report, fino a toccare atmosfere gospel-churching da organo sintetizzate da una tastiera elettronica. Dopo la svolta elettrica di Miles Davis, la cosiddetta fusion determinò notevoli cambiamenti nell’ambito del jazz tout-court, come l’uso accettato del basso elettrico ed una maggiore definizione del ruolo della chitarra elettrica, la quale ha finito progressivamente per essere usata sovente, in luogo del classico pianoforte, come strumento accordale e di prima linea. Per altri versi, la fusion cominciò ad essre invisa ad una certa critica tradizionalista e bollata come un fenomeno apolide rispetto al jazz mainstream, dunque a vivere in una dimensione tutta sua, quasi a sé stante, specie quando a partire dalla metà degli anni Ottanta, ci fu un piccola deriva verso fenomeni più easy, quali lo smooth-jazz o talune situazioni al limite della pop-dance. Quando invece, come nel caso di di Eugenio Mirti con «The Tree Of Life», edito da Alfa Music, la fusion ha tutte le carte in regole e risponde colpo su colpo a determinati parametri, siamo ancora ben lieti di esclamare: «Mesdames et Messieurs, voilà la fusion!».

Le parole di Mirti risultano alquanto eloquenti in proposito: «La mia aspirazione era quella di realizzare un album poliedrico, ricco delle tante suggestioni musicali che amo: il jazz ma anche il funk, il sound di Tulsa ma anche i classici western, Joe Zawinul e gli Hammond trio contemporanei. Purtroppo, viviamo in un’era in cui per essere riconosciuti bisogna essere molto specifici e sapere tutto di un preciso micro-argomento, che è un approccio di una noia mortale. Io, da sempre, preferisco i musicisti eclettici, come lo sono stati quelli che amo: da Miles Davis ai Beatles a Jeff Beck, per fare tre esempi di artisti che (senza volermi neanche lontanamente paragonare!) hanno reso la musica l’emanazione di quello che sono stati: dunque arte e non manierismo tout court». La fusion, nonostante i molti fraintendimenti, spesso solo narrativi, accavallatisi nel corso degli ultimi cinquant’anni, è proprio ciò che dice Mirti, ossia «arte e non manierismo tout court». In realtà essa sfugge ad un precisa catalogazione e all’uso inveterato di un singolo linguaggio accettando, per statuto, stimoli e suggerimenti provenienti dai quattro punti cardinali della musica. La fusion è un liquido di contrasto che porta in superficie disfunzioni, patologie e antinomie tipiche della musica contemporanea, ma le guarisce attraverso la creazione di un «un paradosso logico», come si direbbe in filosofia, mettendo insieme tesi ed antitesi. Tutto ciò è possibile se le maestranze in gioco posseggono determinati requisiti. Scrive Mirti nelle liner notes del CD: «Dopo aver completato il mio ultimo progetto discografico, realizzato in solo nel 2018 («Zen #4», AlfaMusic 2019) il mio desiderio più sentito era quello di tornare a lavorare regolarmente con un gruppo di musicisti. Ho sempre amato suonare con Luca Valente e Mario Sereno (con cui registrammo un omaggio a Prince nel 2018) e quindi formare il nuovo quartetto è stato relativamente facile: aggiungete nel calderone il basso elettrico di Alessandro Loi, ed ecco che tutto funziona a meraviglia».

Dal punto di vista strumentale, il quartetto è costituito da Eugenio Mirti chitarra, lap steel, voce sulla traccia 3 e percussioni sulle tracce 1 e 7, Mario Sereno tastiere, Alessandro Loi basso elettrico e Luca Valente batteria, con l’aggiunta di Carlo Caprioglio chitarra solista sulla traccia 1, in veste di special guest. L’evidente eclettismo del line-up mette a dimora ed irrora con un costante apporto di linfa creativa «L’albero della Vita», che affonda le proprie radici irradiandosi verso direzioni sonore e culturali molteplici. Basta l’opener per chiarire le idee anche al più incauto dei fruitori, vale a dire «Judy» scritta dall’organista Robert Walter per i WRD (Robert Walter, Eddie Roberts e Adam Deitch). Rispetto alla partitura primigenia, il suono diventa più asciutto e più rockin’, soprattutto la chitarra diventa l’io-narrante rispetto all’organo dell’edizione originale. «25 Agosto» è una composizione di Eugenio, molto ariosa e rilassata, una ballata descrittiva simile ad un commento sonoro cinematografico. Quando Mirti parla del Tulsa, il riferimento va a questa città dell’Oklahoma in cui si è sviluppato il cosiddetto Tulsa Sound, di cui uno dei maggiori alfieri, per altro di fama mondiale, fu J.J.Cale. Non a caso la terza traccia dell’album, «Cajun Moon» è proprio un omaggio a Cale, lontana dal ricalco manieristico: la voce di Mirti, l’arrangiamento complessivo e l’apporto della band sono ben distanti dall’originale, pur rispettandone gli assunti basilari. «Streets Of Laredo» è un’elegia tex-mex dall’anima blues, dove la chitarra ricorda Bill Frisell alla corte di Charles Lloyd. «Mercy, Mercy, Mercy» di Joe Zawinul mostra le stimmate della tipica post-fusion davisiana, dipanandosi su un substrato ritmico dal piglio funkified. «Hoover Dam», a firma Mirti, si sostanzia come costruzione onirica ed introspettiva, basata su un procedimento strumentale quasi progressive. «The King Of Termoli», sempre farina del sacco del chitarrista-leader, è un intreccio jazz-funk a PH acido, vagamente blaxploitation, dove la cittadina molisana, un tempo sede di uno stabilimento Fiat, diventa idealmente una metropoli industriale come Detroit. In chiusura, «Longshan Temple», ancora di Mirti, ha le sembianze di un ottimo esempio di fusion alla Zawinul, in cui la chitarra sostituisce magnificamente il pianoforte attravesso un crescendo wagneriano. «The Tree Of Life» di Eugenio Mirti, è un lavoro non comune, che offre una diversa visone del jazz contemporaneo, in cui coabitano stili e linguaggi, solo apparentemente antitetici.

Eugenio Mirti / BadFaith

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