// di Francesco Cataldo Verrina //

Molti si attardano a descrivere spesso la velocità di Johnny Griffin, quale elemento distintivo, dimenticando tutto il resto. In fondo il jazz non è un gesto atletico, almeno non è solo un’attività fisica: nella modalità di esecuzione di uno strumentista intervengono fattori molteplici, di cui la rapidità costituisce solo un aspetto, ma di certo non quello più importante. Senza considerare che la velocità è stata una delle peculiarità dell’hard-bop e del post-bop, comune a tanti artisti di rango; spesso il fiato era più potente delle idee e la mani più rapide del cervello. Di Johnny Griffin si può dire che, nonostante sia stato sottostimato da una certa critica ed oscurato dai nomi eccellenti del sax tenore, quali John Coltrane e Sonny Rollins, possedeva il talento per potersi misurarsi alla pari con la stragrande maggioranza dei suoi coevi: fulmineo e potente, ma dallo stile raffinato e preciso, imprendibile in corsa ma incantatore di anime solitarie nelle ballate.

E siccome il buon giorno si vede dal mattino, «Introducing Jimmy Griffin» rivelò subito la genialità e la bravura del «piccolo» sassofonista tenore, anche come compositore. Al momento della registrazione di questa session Johnny Griffin, detto «the little giant» per via della sua bassa statura, aveva ventotto anni. Partito giovanissimo alla ricerca di un ingaggio sicuro, per circa dodici anni era stato membro della big band di Lionel Hampton, come un tranquillo, onesto ed anonimo lavoratore che timbra il cartellino ogni giorno, fino a quando, nel 1956, la Blue Note non organizzò il suo debutto come band-leader. Con questo suo primo album Griffin iniziò una traiettoria verso l’alto che lo porterà all’attenzione internazionale. Nella sua prima sessione da band-leader i sodali sono in forma smagliante: Wynton Kelly al pianoforte, Curly Russell al basso e soprattutto Max Roach alla batteria che sostiene i lunghi assoli di Johnny Griffin offrendogli una perfetta linea guida, attraverso un tappeto ritmico che si srotola velocemente sotto l’ardente progressione del sax. La session di «Introducing» venne registrata pochi mesi dopo la tragica morte di Clifford Brown; forse Max Roach cercava qualcuno che, in qualche modo, potesse offrirgli una sponda sicura alla medesima stregua del defunto giovane trombettista, e Griffin non lo deluse.

Roach dà il via all’originale «Mil Dew» a firma Griffin con un insolito tempo fuori misura, basato su «I Got Rhythm», mentre il sassofonista leader riporta citazioni tratte dal celebre «Surrey with a Fringe On Top» spruzzando nell’aria scintille funk e blues che sembrerebbero dire: «Potrei suonare due volte più velocemente»; dal canto suo pianista Wynton Kelly diventa una lamina su cui tutto scivola perfettamente, mentre il basso di Curley Russell non perde una battuta immergendosi nella bolgia del ritmo sviluppato da Roach. Non c’è solo velocità e prestanza fisica: il fraseggio di Griffin operato sulla melodia di «These Foolish Things» diventa una master class, una lezione su come arricchire ed espandere una semplice sequenza di note. L’assolo di piano di Kelly crea la sensazione di un piacevole andamento al trotto, leggero e costante, quasi a compensare il lancinante lamento sonoro del sax, mentre dalle retrovie un orda di tamburi in crescendo annuncia l’ingresso sulla scena del sassofonista. I tre originali di Johnny Griffin mostrano l’ampiezza e la vastità inventiva del suo modo di comporre e suonare. Si va dal bop energico e tirato di «Mil Dew», passando attraverso l’up-tempo rilassato di «Chicago Calling», fino alle basse profondità a base di riffs blueseggianti di «Nice and Easy». Il momento clou dell’album e certamente la superba interpretazione di «Lover Man», la classica ballata firmata Ramirez-Sherman-Davis, che sarebbe diventata un pezzo immancabile nel repertorio di Johnny Griffin negli anni a venire.

«Introducing Johnny Griffin» rappresentò un album fortemente innovativo per il 1956, di certo l’idea era di travalicare quelle che erano certe calcificate e stantie abitudini del bop primigenio. Siamo ancora lontani dai grandi sconvolgimenti a cui il popolo del jazz assisterà a partire dal 1959. Un disco sottovalutato dalla critica americana, ma amato dal pubblico, come quasi tutta la produzione di Johnny Griffin, il quale stanco dell’irriconoscente madrepatria, preferì vivere gli ultimi ventiquattro anni della propria vita in un confortevole esilio francese. Gli Europei gli hanno sempre tributato onori, successo e fama.

Johnny Griffin

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