// di Gianni Morelenbaum Gualberto //

παρρησία: nello spurio, sincretico ed eclettico mondo culturale di John Zorn è difficile identificare le fonti cui egli può avere attinto per alludere alla parresia e se egli s’identifichi con il parresiaste, con colui che manifesta franchezza e candore di pensiero anche quando ciò può provocare forti reazioni avverse. Nelle sue investigazioni sull’Ebraismo egli potrebbe alludere alla parrēsía come la poteva intendere l’autore della Epistola agli Ebrei, che nel suo cristianesimo ellenizzato ma ancora di matrice ebraica faceva uso più volte del termine per individuare la libertà di parola (il termine rabbinico farhesya indica il manifestarsi apertamente in pubblico), la completa franchezza e fiducia che debbono esservi fra l’individuo e il suo Creatore o, in altra occasione, per significare la convinzione (in latino, nei testi cristiani, parrēsía veniva tradotto come audacia, constantia, confidentia, fiducia, libertas e licentia) che i fedeli debbono nutrire di poter incontrare il Signore senza alcuna intermediazione che non la predicazione e il sacerdozio di Cristo, il vero e unico Alto Sacerdote. O si allude alla libertà interiore che gli ebrei debbono possedere e sentirsi di possedere nel mondo, così come Filone di Alessandria invitava a manifestare all’interno dell’Impero Romano. Ed è difficile immaginare se Zorn avverta una difficile convivenza fra la franchezza distaccata dell’intellettuale e il concetto di ahavat Israel, l’amore per Israele, la cui assenza Gershom Sholem avvertiva nel pensiero di Hannah Arendt.

Così come in uno dei lavori discografici del gruppo Chaos Magick (Multiplicities: A Repository of Non-Existent Objects) Zorn indirizzava la sua attenzione alla figura di Gilles Deleuze, in Parrhesiastes è probabile che soprattutto egli sia stato attratto da Michel Foucault, dagli scritti raccolti nel volume Discourse and Truth: The Problematization of Parrhesia (a cura di Joseph Pearson, London: Picador, 1984, 1999), frutto di sei conferenze all’Università di Berkeley nel 1983.

Scrive Foucault: La parresia è una specie di attività verbale in cui il parlante ha uno specifico rapporto con la verità attraverso la franchezza, una certa relazione con la propria vita attraverso il pericolo, un certo tipo di relazione con se stesso e con gli altri attraverso la critica (autocritica o critica di altre persone) e uno specifico rapporto con la legge morale attraverso la libertà e il dovere. Più precisamente, la parresia è un’attività verbale in cui un parlante esprime la propria relazione personale con la verità e rischia la propria vita, perché riconosce che dire la verità è un dovere per aiutare altre persone (o se stesso) a vivere meglio. Nella parresia il parlante fa uso della sua libertà e sceglie il parlar franco invece della persuasione, la verità invece della falsità o del silenzio, il rischio di morire invece della vita e della sicurezza, la critica invece dell’adulazione e il dovere morale invece del proprio tornaconto o dell’apatia morale. Zorn sarebbe, dunque, un parresiaste dei nostri tempi? Afferma ancora Foucault: Secondo me il parresiastes dice ciò che è vero perché egli sa che è vero; ed egli sa che è vero perché è realmente vero. Non è solo che il parresiastes è sincero nel dire qual è la sua opinione; è che la sua opinione è anche la verità. Egli dice ciò che sa essere vero. La seconda caratteristica della parresia, è dunque che c’è sempre in essa una esatta coincidenza tra opinione e verità.

Difficile immaginare nel ruolo il protagonista di un postmodernismo esoterico del Nuovo Mondo che continua a prediligere la forma del collage, del quilt, del montaggio, dunque della molteplicità di verità, opinioni e possibilità. Con l’arrivo di una “classicità” dettata pure dall’età, la schizofrenia aforistica di Zorn ha assunto una veste formulaica talvolta vezzosa, un riproporsi che è anche firma autoriale e che, nel rivelare l’ovvio, e cioè che siamo in presenza di un autore che non sa trattare forme dall’ampio respiro, deve per forza affidarsi a interpreti fidati, spiritualmente e linguisticamente affini e capaci, perciò, di estrarre il meglio da trame compositive scarne, essenziali, spesso ridotte e nulla più. E se prima, nella fase della carriera contraddistinta da gruppi come Masada, Bar Kokhba, Dreamers o da collaborazioni votate interamente al collage affidato alle intuizioni momentanee del compositore e alle gerarchie che ne discendevano, Zorn poteva affidarsi a collaboratori fra i quali agire come primus inter pares e che possedevano personalità talmente spiccate da operare con estrema originalità pur nell’adesione al linguaggio e all’idioma dell’autore, nell’ultimo decennio almeno Zorn si è attorniato in larga parte da strumentisti eccellenti ed interamente al suo servizio, ma in posizione essenzialmente subalterna sotto il profilo dell’inventiva. E se ciò può rivelarsi efficace nel respiro volutamente corto di “vignette” e aforismi, in pagine di maggior respiro (peraltro non frequenti nell’opera recente di Zorn) si disvela un curioso anche se non inaspettato meccanismo: l’incapacità di trascendere i confini dell’impianto formale zorniano -fatto di frame, di inquadrature in cui si articola un polistilismo che spesso è nervoso affastellarsi di momenti linguisticamente e dinamicamente diversi- porta i musicisti a manifestare le proprie personalità più di quella dell’autore.

In Parrhesiastes vi sono tre composizioni, o meglio tre distinte sezioni in cui più materiali confluiscono alternandosi, succedendosi, stratificandosi: in assenza di un indispensabile filo logico in grado di tenere insieme lo sfilare di momenti, temperie, linguaggi, gli strumentisti si affidano al loro estro, pregevole ma non sempre fulminante, e lasciano trasparire interessi, inclinazioni, pratiche che risultano pertinenti quanto pure parallele al contesto zorniano che, per sua natura, più che strutturato è ordinato sistematicamente dal compositore nella sua ricerca di alternanze, contrasti, opposizioni e affinità: il gioco è divertente, talvolta riesce, altre no nel suo ripetersi e riproporsi costante e di cui comunque Zorn si assume i meriti, qualsiasi sia il contributo dei musicisti, anche il più lontano dall’estetica e dall’idioma abituale dell’autore. In questo egli si è comportato come molti altri autori contemporanei, quali Glass o Reich, ad esempio, che hanno creato organismi, gruppi, compagini dediti esclusivamente all’esecuzione, interpretazione e divulgazione della loro musica. Zorn ha così creato una serie di community in cui vige una forma di stretta fellowship al servizio esclusivo di un abile padre-padrone, immediatamente reattivo al percepire i mutamenti culturali del pubblico e a forgiare per sé stesso un’immagine, un’icona, un tratto autoreferenziale; leggere le presentazioni che la Tzadik, casa discografica di Zorn, pubblica di ogni produzione è, infatti, illuminante quanto spassoso: una cinica ma ironica capacità di autopromozione in cui il ripetersi ormai fisso dello stesso gioco viene presentato ogni volta in modo diverso. E per certi versi è proprio così, perché la formula ideata da Zorn si basa su di un rimescolamento continuo delle stesse carte in più giochi, in più combinazioni come un pittore che firmi una serie di multipli di rara inventiva. Ma che multipli rimangono, per quanto geniali. E il genio di Zorn si è fatto classico e abitudinario come d’altronde lo è un pubblico invecchiato assieme a lui e che giustamente lo celebra come simbolo di un certo tipo di esistenza e di tragitto culturale: un coacervo culturalmente zigzagante, instabile, schizofrenico e frenetico, fagocitante in modo del tutto pop ed in cui pochi sono gli assi portanti, soprattutto un’iconoclastia di derivazione post-punk, una sensibilità per la rivisitazione dei luoghi più intimi e nascosti dell’Ebraismo e pure dei suoi aspetti esoterici, una fascinazione per la teatralità di un erotismo crudele fra Artaud e Bataille, l’assimilazionismo antropofago (ripensando alle teorie di Mário de Andrade e di Oswald de Andrade) e affamato di materiali mai assorbiti completamente o organicamente, ma posseduti in un gusto quasi infantile per lo smembrare, il decostruire, lo smontare, il rimontare escogitando e permutando possibilità diverse (fino ad ottenere persino dei Frankenstein dall’esistenza impossibile e velleitaria, come Hermetic Organ o il vetusto linguaggio accademico rétro di Bagatelles), l’insofferenza verso i dogmi dell’accademia riletti attraverso un certo sarcasmo o pure attraverso un’ammirata naiveté. Zorn destruttura non pochi giochi alla cui complessità storica egli non può o non sa ambire, li smitizza talvolta dispettosamente, li sminuzza e li demistifica, non sempre con motivazioni sufficienti ma con un disinibito pragmatismo prettamente americano e un approccio inquisitivo squisitamente ebraico che conducono quasi sempre a risultati interessanti o quanto meno sorprendenti.

L’abilità narrativa del musicista in molti fra i suoi più recenti lavori è un processo più pop che postmodernista: la strutturazione episodica procede come veicolata da un iPod, è il frutto di una playlist cangiante che pare volersi esprimere con l’immediatezza ambigua e allusiva di una comic strip (che Zorn ami Carl Stalling e Milt Franklyn non è casuale). Una concezione che, appunto, riesce con maggior facilità a cogliere in contropiede l’ascoltatore se veicolato attraverso la brevità dell’aforisma: nelle tre mediamente estese composizioni presenti in Parrhesiastes, “In the Footsteps of Hermes”, la più lirica “The Eventual Devalorization of the Perhaps” e “Form, Object, and Desire”, ben più che la personalità compositiva di Zorn emerge, casomai, la sua regia nel piegare al frazionamento idiomatico l’inclinazione di John Medeski per il funk e il blues, il virtuosismo post-boppistico (memore pure dell’insegnamento di McCoy Tyner) di Brian Marsella, l’aggressiva ma varia poliritmia di Kenny Grohowski e il gusto timbricamente decorativo del chitarrista Matt Hollenberg. Così come l’uso di due tastieristi evoca ricordi fonici del linguaggio sperimentale post-davisiano degli anni Settanta, l’intero lavoro possiede un tratto eclettico in cui il montaggio linguistico costantemente mutevole non nasconde il gradevole e divertente senso di déjà entendu di una paramnesia, tra frammenti di prog-rock, improbabili angolosità pseudo-metal dall’energia teatrale quanto artificiosa, brevi momenti informali, melodici recuperi manifestamente romantici, bruschi cambiamenti di tempo, guizzi neo-bop, ellittiche e incantatorie melodie mediorientali di origini ebraiche, autocitazioni, slarghi psichedelici, veloci fremiti noise, timbri surf. Trattasi, ancorché invecchiato nella gabbia di una formula, del riflesso musicale di un coacervo che, se ordinato, vanterebbe un fascino sapienziale ma forzosamente esulerebbe da un contesto metropolitano che cerca costantemente una via di fuga dall’ordine costituito, che intende sottrarsi ad ogni categorizzazione e che oscilla fra Kabbalah e teosofia, fra l’occultismo grottesco di Austin Osman Spare e il misticismo oscuro di Aleister Crowley, fra l’edonismo occidentale e la dura, nodosa sobrietà dell’Estremo Oriente: il pensiero creativo che ne risulta pare avvolto da una sensibilità neo-preraffaellita il cui rifiuto dell’assenza di un disordine è inteso come libertà intellettuale, come assenza di limiti artificiali, come rifiuto della tradizione europea e della sua logica cartesiana.

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