// di Gianni Morelenbaum Gualberto //

Violino, violoncello, tre voci femminili, due pianoforti, pianoforte e maracas, marimba e maracas, tre marimbe e xilofoni, metallofono e pianoforte, pianoforte e marimba, marimba e xilofono e pianoforte, due clarinetti e clarinetti bassi, voce femminile e pianoforte: la prima volta che mi accadde di ascoltare Music for 18 Musicians di Steve Reich ricevetti uno choc. Rispetto al consunto eurocentrismo e alle sue sempre più sterili, statiche e autoreferenziali “avanguardie storiche” intuivo, persino nel mio piccolo, nuove e soprattutto più vitali possibilità espressive, avvertivo una capacità di innovare che riesplorava in modo del tutto imprevedibile materiali che le avanguardie reputavano consunti e persino disdicevolmente infrequentabili. In realtà, soffiava nella musica di Reich un vento di ricerca, di esplorazione, di novità, di intelligenza e arguzia, di cosmopolitismo, di apertura mentale sconosciuto al Vecchio Mondo, ancora di più percependo con facilità che la struttura ritmica circolare e l’organizzazione temporale della pagina accoglievano istanze non appartenenti alle culture eurocentriche.

Il concetto di pulsazione mi affascinò e fui completamente preso dall’iniziale sequenza di undici accordi che si ascolta all’inizio e che si ripresenta alla fine dell’opera. Questi accordi, ripetuti in note pulsanti e sostenute per la durata di due respiri dei clarinettisti bassi, vengono esplorati uno per uno per un periodo di cinque minuti come armonia di base sulla quale vengono successivamente elaborati periodi musicali più lunghi. Il brano ha una struttura ad arco: A B C D C B A ma non fu tanto la sua architettura così calibrata a colpirmi quanto la pulsazione regolare del pianoforte e delle percussioni e il ritmo della respirazione umana nelle parti vocali e dei fiati, quell’interazione tra loro che produce un notevole effetto di moto a ondate che si levano e s’abbassano. Non meno interessante mi apparve il ruolo di “master musician”, forse ereditato dalla tradizione africana Ewe, studiata da Reich in Ghana, affidato al vibrafono e che indica quando gli esecutori devono passare da una sezione all’altra o quando l’armonia o la melodia devono cambiare all’interno della struttura.

L’idea di un uso creativo del diatonismo, soprattutto la ripresa del modalismo più che di un ambiguo neotonalismo, l’intreccio fra strutture modali ed accordali, l’insistenza sull’estasi drammatica e dinamica della ripetizione in un contesto accademico in cui l’eurocentrismo aveva decretato e cercato di imporre la morte della musica tonale, la costruzione di un linguaggio in cui l’estesia andava di pari passo con la percezione pratica, mi apparve come un’intuizione che soprattutto rispettava le tradizioni melodiche e ritmiche dei laboratori poli-etnici e poli-culturali delle Americhe e offriva a chi vi era cresciuto culturalmente una vera e propria dichiarazione d’indipendenza rispetto al colonialismo culturale eurocentrico. Music for 18 Musicians, con la sua appropriazione dell’armonia per scopi diversi da quelli eurocentrici tradizionali, rappresentò per me, assai giovane, una fra le prime azioni di difesa dall’intrusione europea nelle nostre tradizioni, ridotte a fare da produttrici di lavori che gli europei presentavano degradandoli come oggetti esotici.

Come ebbe a scrivere il compositore Tom Johnson: Piuttosto, si sente, fondamentalmente, una scala, e gli accordi e le melodie che ne derivano possono consistere in qualsiasi combinazione di note di tale scala. Poiché non ci si preoccupa delle progressioni di accordi che hanno costituito la musica tradizionale europea e che continuano a delineare la maggior parte della musica pop e folk, non si avverte la necessità di una forte linea di basso per sostenere le progressioni. Spesso, se non sempre, vi è un centro tonale, ma di solito si tratta solo della nota che si presenta più spesso e nei momenti più importanti o salienti. Non sembra possedere una consistente ed evidente finalità. E quando tale centro tonale cambia o modula, di solito si tratta solo dello spostamento dell’enfasi da una nota a un’altra, piuttosto che l’introduzione di un’intera nuova serie di progressioni accordali, come avrebbe fatto Beethoven.

Rimane indimenticabile per me l’elettricità emotiva all’ascolto della prima incisione di Music for 18 Musicians, realizzata dal gruppo dello stesso Steve Reich per la ECM nel 1976 e pubblicata nel 1978: la musica sgorgava con un’aggressività ritmica acuita dal suono tagliente e sbilanciato della registrazione, la sensazione era quella di ascoltare un fenomeno cosmico sconosciuto eppure, allo stesso tempo, architettonicamente percepibile, intelligibile, emozionante. Da allora, solo l’interpretazione dello Ensemble Signal, diretto da Brad Lubman (Harmonia Mundi HMU907608, 2015), mi aveva fatto rivivere lo stessa propulsività, l’ebbrezza della velocità in un tuffo verso un incantatorio ignoto. Non avevo, infatti, ascoltato (Colin Currie Records CCR0006, aprile 2023, inciso nel novembre 2022) la superba realizzazione firmata dall’eccellente percussionista inglese Colin Currie con il Colin Currie Group e Synergy Vocals, frutto di un rapporto prolungato, direi pressoché irripetibilmente “intimo” ed entusiasta con il lavoro. Nella nettezza delle simmetrie, esposte con rara precisione chirurgica, si snoda in un’unica ipnotica campata -che collega, lungo le undici sezioni (rese ognuna in modo estremamente caratterizzato e differenziato), gli undici accordi iniziali a quelli finali- un’opera dal respiro (ritmico e contrappuntistico) che pare infinito, in cui spiritualità e teatralità si fondono nel luccichìo incessantemente di una prospettica, smagliante ricchezza e varietà di colori. Mi è sembrato di ascoltare nuovamente l’opera per la prima volta, esaltato ed emozionato dalla bravura di strumentisti virtuosi quanto appassionati e di splendidi interpreti vocali, diretti dall’encomiabile Micaela Haslam.

Colin Currie Group

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