l’Ethnic Heritage Ensemble mescola, senza soluzione di continuità, fughe strumentali su terreni impervi trascendendo i confini della musica convenzionale e calando gli ascoltatori in un lavacro purificatore che tocca le loro anime nel profondo.

// di Francesco Cataldo Verrina //

In quella notte di giugno del 1981, a Bologna si respirava una stana atmosfera: la gente era guidata da un’apparente frenesia, il vento soffiava più velocemente del solito, mentre il fiume Reno sembrava volesse diventare il Chicago River con le sue acque verdastre, perfino la Torre degli Asinelli aveva assunto le sembianze della Century Tower chicagoana, mentre un groove scandito da una ridda di percussioni invadeva i portici riverberandosi per tutto l’ambiente circostante. Paradossalmente il disco più iconico dell’Ethnic Heritage Ensemble non è stato realizzato nella ventosa Chicago, loro città di origine e di elezione artistica, ma in una Bologna con vocazioni internazionali, cosmopolite e terzomondiste, tutt’altro che «una vecchia signora dai fianchi un po’ molli. Col seno sul piano padano ed il culo sui colli (…) arrogante e papale (…) la rossa e fetale. Bologna la grassa e l’umana già un poco Romagna e in odor di Toscana», come cantava Francesco Guccini.

Con il suo incessante ed implacabili apparato percussivo, l’Ethnic Heritage Ensemble rappresenta uno dei pilastri del jazz di Chicago da più di mezzo secolo secolo, durante il quale ha raggiunto il nucleo centrale dell’esperienza umana, attraverso una magnetica spiritualità concettuale, attraversata da un vortice di sonorità che guardano verso i confini del Sud del mondo, tra ritmi ancestrali e improvvisazioni lungimiranti. L’ensemble venne fondato nel 1973 dal percussionista Clifton Blackburn, conosciuto come Kahil El’Zabar, nome adottato dopo la conversione all’Islam. Il loro secondo album «Impressions», divenuto nel corso dei decenni oggetto di culto, proposto sul mercato dell’usato o del new old stock a cifre stratosferiche, venne registrato in Italia dalla Red Records che l’ha ristampato di recente su vinile di pregio 180 grammi gatefold, per la gioia degli audiofili e dei collezionisti. L’album è costituito da un vero concept impostato come una suite suddivisa in sette parti denominate tutte «Impressions» ed accompagnate da un numero progressivo, come i capitoli di un plot sonoro abilmente narrato da Kahil El’Zabar (batteria, percussioni), Henry «Light» Huff (sax soprano, arpa, percussioni), Ed Wilkerson (sax tenore, fiati, pianoforte). L’ascoltatore si trova alle prese con un contagioso ed inebriante infuso di sonorità afro-beat (complete di strumenti rituali), marce ritmiche, elementi R&B, cesure bop e blues stomping che legano il progetto ad un mood tipicamente jazz, ma con un applique melodico ripetitivo, tipico di composizioni che cercano di creare un’universalità sia nel ritmo che nel tono, ma nel segno della migliore tradizione del jazz percussivo inquadrato da una prospettiva distintamente afro-chicago-americana.

L’album si apre con un componimento che mette in risalto l’affiatata sinergia e l’impeccabile musicalità dell’ensemble. La miscela di melodie soul delle ance, gli accordi vibranti del pianoforte e ritmi pulsanti del kit percussivo creano un arazzo sonoro armonioso. A seguire un costrutto ipnotico che evidenzia la capacità del line-up di fondere senza soluzione di continuità le poliritmie tribali africane con elementi di jazz moderno, accompagnati da un battito felpato e da intricate improvvisazioni. Il terzo step della suite è una testimonianza della potente capacità di narrazione dell’Ethnic Heritage Ensemble, il quale mescola, senza soluzione di continuità, fughe strumentali su terreni impervi trascendendo i confini della musica convenzionale e calando gli ascoltatori in un lavacro purificatore che tocca le loro anime nel profondo. La B-side ascrive a sè ancora molti aspetti della musica africana e africano-americana, sia tradizionale che popolare, fondendoli a caldo. L’opener è disteso su una scivolosa atmosfera blues e R&B intercalati in un movimento quasi fiabesco con una una sensibilità modale da canzone prog ed una serie di pungoli funkified, tanto da far precipitare qualcosa di ultraterreno in un contesto urbano. Nel prosieguo, dopo uno cadenzato, speech, a volte sembra che il sax, snello, virile e muscoloso, si comporti come una batteria con gli accenti sulle sue linee, mentre il suono della notte e della campagna si amalgamano in contrappunto con i poliritmi mutevoli di El’Zabar. Al terzo solco c’è un cambio di mood, l’ensemble emana un’energia irresistibile a cui è impossibile resistere. Con i suo beat contagioso e il tempo variabile, l’impianto sonoro è quasi un invito a lasciarsi andare. Gli assoli e l’interazione dinamica tra i sodali sviluppano un forte richiamo spirituale. Il costrutto armonico è stratificato in un habitat non lontano dal free jazz, dove il sax soprano ed il tenore si mescolano con i timbri sublimi esternati dal lavoro di Kahil alla batteria e alle percussioni, le quali includono anche un’intrigante kalimba, Sul finale si torna nuovamente a più miti consigli con una composizione che scuote l’anima mostrando la capacità dell’ensemble di evocare un’ampia gamma di emozioni attraverso la propria musica. Le delicate melodie, di struggente bellezza, e le sentite improvvisazioni creano un’esperienza d’ascolto davvero coinvolgente ed introspettiva, quai olistica.

Un album goove-centrico e «pacatamente sciamanico» Il più delle volte, il termine sciamanico viene usato per descrivere deliri ad alta energia basati su tonnellate di decibel che producono catarsi liberatoria ma non necessariamente elevazione spirituale. Per contro, «Impressions» è appassionato, infuocato, ma relativamente tenue, i suoi ritmi motori primordiali lievemente imbrigliati ed il suo lirismo ininterrotto sono purificanti, ma lasciano perfino una sensazione di armonia, di fratellanza universale e di ottimismo collettivo, mentre, nel corso dei sette diversi passaggi, Huff con l’arpa e le percussioni, Wilkerson con il pianoforte e altri fiati, improvvisano in una sorta di stile soulful, in cui il dominio di El’Zabar sembra a volte abdicare a favore dei due sodali, favorendo un perfetto e circolare by-play. Un grazie ancora ad Alberto Alberti e Sergio Veschi, infaticabili produttori di un tempo, ma soprattutto a Marco Pennisi e alla nuova Red Records per aver fatto riemergere un capolavoro di tal fatta.

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