Il 28 settembre 1991, all’età di 65 anni Miles Davis, dopo una vita di eccessi, moriva per un attacco di polmonite in un ospedale californiano a Santa Monica, poco dopo il suo ultimo concerto all’Hollywood Bowl. Le ultime live performance italiane del trombettista risultano datate 23 luglio 1991 allo Stadio Olimpico di Roma e 24 luglio in Piazza Giorgione a Castelfranco Veneto. L’ultima partecipazione ad Umbria Jazz risale al luglio del 1989 con un memorabile concerto ai Giardini del Frontone.

// di Irma Sanders //

«MILES: SKETCHES OF JAZZ». UN DAVIS COSÌ NON VE L’HANNO MAI RACCONTATO

Dotato di una genialità contraddittoria e trasversale, Miles Davis appare come un personaggio mai del tutto risolto e completamente raccontato; una sorta di libro mai finito e sempre aperto, che sembra riscriversi ed adattarsi ad ogni epoca, senza mai sentire il peso degli anni ed i limiti del tempo. Mentre si analizza la sua discografia, anche nelle fasi più complesse ed irrazionali, se ne subisce inspiegabilmente il fascino, perfino quando l’armonioso incanto della costruzione sonora contrasta con le spigolosità umane e caratteriali del personaggio.

Dunque cosa di meglio di un altro libro per raccontarlo, però, da una differente angolazione: essenzialmente attraverso la sua discografia. I suoi album rappresentano la suddivisione in capitoli di una vita artistica irrequieta e mutevole, ma costellata di grandi riconoscimenti. Come sostiene il Verrina: «Miles Davis è stato un’Araba Fenice capace di risorge dalle proprie ceneri ad ogni cambio di passo del jazz moderno, ad ogni mutamento della società e delle tendenze sonore all’interno dell’universo discografico: alcuni di questi cambiamenti furono da lui indotti. Davis si è saputo smarcare presto dal bop, dopo aver concepito album epocali, si è immerso nel cool fissandone i punti di ancoraggio, ha fatto del jazz modale il suo modus operandi, ha dato al jazz una scarica elettrica, ha abbracciato la causa dei ritmi urbani, seducendo i figli ed i nipoti dei suoi detrattori: molti hanno finito sistematicamente per imitarlo».

Se la musica rappresenta lo spirito o lo stato d’animo che definisce un particolare periodo della storia, l’impulso elettrico di Miles Davis, tra il 1968 ed il 1975, si inserì nello spirito musicale dell’epoca aprendo il jazz al principio dei vasi comunicanti e alla ripetizione distorsiva basata sul groove, trascendendo o ripudiando le radici del jazz acustico. In «Miles: Sketches Of Jazz», l’autore riesce a radiografare con estrema chiarezza, 45 album, tra più importanti della lunga discografia davisiana, dandone una perfetta lettura, periodo per periodo, spiegandone i passaggi intermedi e chiarendo molti punti oscuri, soprattutto sfatando tanti luoghi comuni che circolano sul personaggio Miles Davis.

Per Carlos Santana, ad esempio, «Miles Davis è stato un artista granitico, mai piegato al sistema commerciale». Non è dello stesso parere il critico Stanley Crouch che sentenzia: «Idiozie! Voleva solo fare soldi. Vederlo umiliarsi davanti a un pubblico commerciale è stato davvero terribile.» Il vero spartiacque fu «Bitches Brew» del 1970, dove gli strumenti elettronici entrarono nella musica del trombettista, sovvertitore del vernacolo jazz già con «Kind of Blue» del 1959. Le reazioni furono tra le più disparate. Il compositore Paul Buckmaster affermava: «Mi sono sdraiato sul pavimento battendo mani e piedi per esprimere quanto forti erano i sentimenti che mi dava, era davvero la musica del futuro». Diversamente, il conservatore Crouch scrisse nella sua recensione: «Il più grande esempio di autolesionismo della storia».

Ma in fondo come scrive Francesco Cataldo Verrina: «A Miles Davis probabilmente non importava il giudizio né dell’uno né dell’altro. Tutto gli scivolava addosso ed era solito dire: «Sono quarant’anni che non riascolto mai la mia musica». Davis è stato un artista sempre teso ad inseguire le intuizioni del suo talento, incurante delle critiche e senza badare alla risposta del pubblico». Ricorda il percussionista James Mtume: «Una volta ad un concerto il pubblico cominciò a fischiare il nuovo jazz elettrico di Miles. Gli sarebbe bastata qualche nota di So What per farsi acclamare subito, ma lui mi disse di continuare a suonare come stavamo facendo. Alla fine il pubblico ci tributò dieci minuti di applausi».

Davis resta un enigma avvolto in un mistero, nonostante la quantità di analisi musicali e ricostruzioni biografiche che hanno tentato di raccontarne l’esistenza non comune. «Miles: Sketches Of Jazz» prova ad inquadrare la figura del trombettista soprattutto attraverso un’analisi della sua discografia essenziale. Per almeno tre volte nell’arco della carriera, un suo album ha coinciso con un mutamento radicale, condizionando il jazz nel decennio a venire: alla fine degli anni ’40 con le registrazioni che avrebbero dato vita a «Birth of the Cool», nel 1959 con «Kind of Blue» e nel 1970 con «Bitches Brew». Guascone, geniale, arrogante, bugiardo, proteiforme, visionario, mutevole, trasformista, anticipatore, vanesio ed opportunista: in massima parte la storia del jazz moderno è lui.

Insieme , «Mingus: Il Meglio di un Bastardo», «Coltrane: Il Passo del Gigante» , «Sonny Rollins: Sonny Like Rollins», «Thelonious Monk: La Posizione del Monaco», «Art Pepper: Sul filo dell’alta tensione » e «Jackie McLean: Ho preso a calci Charlie Parker», «Miles: Sketches Of Jazz» è la quinta monografia scritta da Francesco Cataldo Verrina, autore prolifico che, da tempo, sta scardinando il linguaggio della narrazione jazz, dove filo conduttore diventa l’analisi dei dischi dell’artista sotto il profilo emotivo e strumentale, bypassando il biografismo e riducendo al minimo l’aneddotica ed il citazionismo.

Francesco Cataldo Verrina / Workshop su Miles Davis

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