// di Francesco Cataldo Verrina //

Siamo nel 1977 ed artisti di ogni estrazione guardano alle sonorità del Sud del mondo, vuoi per moda, vuoi per lo sviluppo dell’etnomusicologia che portava molti intellettuali a guardare alle radici della musica ritmica, saldamente conficcate nelle viscere della Grande Madre Africa, le cui propaggini raggiungevano l’America, specie centro-meridionale. All’interno di tale orientamento musical-sociale si era sempre distinto Don Cherry, il visionario, l’epitome del terzomondismo applicato al free jazz, il legame tra Africa e America nei dischi più rappresentativi di Ornette Coleman. Don Cherry colui che aveva insegnato a Gato Barbieri il concetto di volo libero introducendolo nel Ghota del jazz mondiale, in questo album il trombettista-cornettista raggiunge una perfetta simbiosi mutualistica con due musicisti che viaggiano sulla sua stessa lunghezza d’onda.

«Codona» è progetto sonoro che nasce dalla fusione di tre personalità musicali eclettiche. Lo stesso nome è la sintesi delle iniziali dei tre artisti coinvolti nell’operazione: Collin Walcott, Don Cherry e Naná Vasconcelos. In periodo, si era diffusa la convinzione che il rock e il jazz tradizionale non bastassero più a rappresentare quella realtà in divenire che da sempre aveva affascinato i ricercatori e gli sperimentatori.

È l’epoca della fusion a vari livelli ed in vari formati. Tutto trovava una giustificazione nella mescolanza di elementi molteplici, alcuni dominanti altri recessivi o di contorno. Molte band ricorrevano all’uso di strumenti antichi legati alle etnie più disparate. Il suono prendeva il sopravvento sulla musica, il concetto di atonalità superava il concetto di trascrizione e regolarità armonica di tipo classico, gli accordi diventano scansioni ritmiche e le note vibrazioni di un copro elastico. Il progetto Codona divenne il crocevia tra alcuni elementi della tradizione folklorica latino-americana e le poliritmie africane, dove la voce e gli strumenti a fiato di derivazione europea, tipici del jazz, assumevano un ruolo di compensazione e di suggerimento e venivano ricollocati nella dinamica motoria di un flusso ritmico-armonico omogeneo, all’interno del quale risultava difficile comprendere il gioco delle parti: timming, comping e soloism diventavano un tutt’uno. Il progetto Codona si espresse attraverso una sorta di trilogia, di cui il più significativo rimane il capito primo, Volume 1, indicato anche come disco con la copertina di legno (solo un effetto ottico, è carta). Tre soli musicisti, ma un’infinità di strumenti: Collin Walcott (sitar, tabla, sanza, dulcimer, timpani e voce), Don Cherry (tromba, flauto, doussn’gouni, melodica, organo e voce) e Naná Vasconcelos (berimbau, cuíca, percussioni e voce). Forse un piccolo lampo di genio o una situazione astrale favorevole, ma il primo tassello del trittico Codona è un riuscitissimo esempio di musica globale.

Il jazz è sullo sfondo, la musica del mondo occidentale, colto ed eurocentrico, resta a guardare, e l’album diventa una sorta di rito d’iniziazione ad un nuovo genere, una specie di sacrificio tribale, sul cui altare, da lì in avanti, cercheranno d’immolarsi molti irrequieti cercatori di archetipi sonori. «Like That Of Sky» inizia come gocce di pioggia, che cadono battenti sulla pietra lavica in un crescendo che sembra indicare un lungo sentiero da percorrere, su cui marciano torme di beduini, capitani coraggiosi, gesuiti euclidei, vestiti come dei bonzi per entrare a corte degli imperatori della dinastia dei Ming, Fenici, Cartaginesi, sultani e danzatrici del ventre, Tuareg e guerrieri Masai. Battiato, con il suo nonsense, offre un assist alla narrazione, perché nei suoi 11 minuti, il brano cerca il suo centro di gravità permanente nella nera Africa, passando per le terre berbere, l’estremo Oriente, fino a giungere sulle coste delle delle Indie Occidentali. Tra percussioni, sonorità flautate e corde vibranti, la title-track, «Codona» offre la sensazione di un volo pindarico sulle Ande e le terre selvagge del Brasile, mentre «Coleman Wonder», usa due temi di Ornette Coleman. «Race Face» e «Sortie» mescolati a «Sir Duke» di Stevie Wonder. La pastiche sonora viene trasportata in una dimensione scarnificata ed essenziale, perfino la tromba di Don Cherry assume le caratteristiche di uno strumento tribale.

La B-Side si apre con «Mumakata», scandita con un percussione progressiva, dove la voce e la tromba diventano un incentivo all’estasi collettiva. La conclusiva «New Light» prosegue l’esplorazione dinamica, cercando ancora quell’anello di congiunzione fra terre lontane, ma legate da un matrice comune, attraverso una miriade di suoni e in una dimensione polisensoriale. E’ il tentativo di ottenere un passaporto per la «quarta via» o per approdare all’esperanto sonoro, la musica dei popoli, del sangue della terra, degli uomini colorati e delle razze meticce, dove il jazz fa solo da collante. Il progetto Codona è il caos primordiale dei suoni, riportato a nuovo ordine, una vibrazione continua, un rito magico approntato da tre perfetti sciamani, un’orgia dionisiaca nella quale potreste rimanere per sempre intrappolati. Attenzione, maneggiare con cura e tenere lontano dalla portata dei bambini. Consigliatissimo!

Codona, Don Cherry, Collin Walcott, Naná Vasconcelos, Stoccarda, 1980 (Foto: Roberto masotti)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *