// di Francesco Cataldo Verrina //

Franco D’andrea Trio – «My One And Only One», 1983 (Red Records)

Per quanti amano il pianismo nel jazz, questo è un piccolo gioiello, dove tecnica e inventiva si amalgamano perfettamente al forte carico emotivo che uno dei più rappresentativi jazzisti italiani di tutti i tempi, da sempre, riesce a riversare nei sui funambolici percorsi sonori. Franco D’Andrea, oggi ultraottantenne, ancora attivo, è un musicista rigoroso e creativo, rispettoso della tradizione, ma capace d’inventare un «mondo nuovo» grazie ad una verve creativa, compositiva ed esecutiva non comune. Le sue parole possono aiutarci a capire molto: «Abbiamo bisogno di punti di riferimento, altrimenti non capiamo più niente. Ciò non toglie che ci siano diverse sfumature. Io, per esempio, passo dall’ambito tonale a quello modale con la consapevolezza delle rispettive peculiarità. Quando voglio evocare uno di quei mondi non vado solo a lavorare sul piano ritmico, sui riff, ma lo faccio usando meccanismi tonali come sequenze (…) per evocare una certa atmosfera o un colore, magari per poi finire su una situazione astratta».

Regsitrato il 18 maggio del 1983, con la complicità di Mark Helias al basso e Barry Altschul alla batteria, al Baringozzi Studio di Milano, «My One And Olly One» è sicuramente una pietra miliare nella variegata carriera di Franco D’andrea. Quattro tracce estese, di cui tre firmate dal pianista, ad eccezione della title-track, propongono un viaggio estetico ed estatico attraverso una polisensorialità musicale che fonde a meraviglia passato e presente del jazz, ma forse anche il futuro (siamo nella prima metà degli anni ’80), senza subire il fascino delle fusioni a freddo o lasciarsi annebbiare dal caos delle avanguardie: è jazz in purezza, vinificato senza additivi chimici. L’album possiede una sorta di genetica evergreen, esprimendo ancora freschezza, novità e vitalità. Dice Franco D’Andrea: «Per me il jazz è la musica più spontanea che ci sia, un linguaggio molto umano, capace di dare tanto a livello emotivo e intellettuale, grazie all’equilibrio tra i diversi elementi che si compenetrano. Io sono tra coloro che hanno amato il jazz nella sua interezza e sfrutto la prospettiva storica come effetto musicale per raccontare una storia un po’ surreale». Sarà proprio questa componente «surreale» che riesce a mantenere sospesa nello spazio e nel tempo la musica di Franco D’andrea, rendendo «My One And Olly One» un album poco geo-localizzato in un’epoca o in un preciso ambito sonoro.

Il disco si apre con «Nord & Sud», un viaggio ideale fra il Nord ed il Sud della musica, una sorta di mille miglia, che si snoda su un tracciato di oltre dieci minuti, fra movimenti lineari o obliqui, su strade spaziose o anguste, tra discese ardite e risalite; a seguire «Slalom Speciale», un altro brano che ha nel nome tutti i prodromi di quello che sarà l’atteso svolgimento musicale. Parliamo di un veloce up-tempo, dove la retroguardia ritmica sembrerebbe puntellare il percorso con una serie di paletti, che il pianista schiva con abilità, traendo da essi inventiva e linfa creativa per un fraseggio a volte tagliente, altre quasi ironico e divertito. Anche la B-Side ospita solo due tracce: la prima è «Quiet Children», una ballata mid-range, dove gli scambi più volte ripetuti tra piano e basso creano un bellissimo effetto di sospensione; in chiusura la lunghissima title-track, oltre quattordici minuti di genialità esecutiva. Il lavoro perfetto della sezione ritmica, che ne asseconda il volere in ogni frangente, spinge Franco D’andrea verso un’inarrestabile propulsione improvvisativa, legando insieme molteplici elementi e moduli espressivi. Ottima la qualità sonora dell’album su etichetta Red Records. (un classico che speriamo venga presto ristampato dalla nuova Red Records di Marco Pennisi).

Franco D’andrea Quartet – «My Shuffle», 1987

Attivo sin dai primi anni Sessanta, Franco D’Andrea è diventato nel tempo un nome di prestigio in Italia e all’estero, soprattutto è riconosciuto come uno dei più raffinati interpreti jazz che il nostro paese abbia espresso. Passato dall’iniziale ed ideale lezione monkiana, di cui ha elaborato taluni stilemi rendendoli meno abrasivi e discordanti, ma di cui ha conservato quell’imprinting scevro da cedimenti al mielismo pseudo-sentimentale, tipico di tanti pianisti jazz europei, le cui performance si sdruciolano cedendo al camerismo classicheggiante. D’Andrea, ancora in attività e con una verve creativa illimitata, non ha mai interrotto la sua ricerca musicale; non si è fermato di fronte ai tanti riconoscimenti ricevuti. Questo è uno splendido album del 1987, pubblicato dalla Red Records e ricavato da registrazioni live in quartetto a Montpellier in Francia, nel novembre del 1985. Il pianista di Merano è accompagnato da Tino Tracanna al sax, Attilio Zanchi al basso e Gianni Cazzola alla batteria. Un ottimo esempio di jazz italiano imperniato su un elementi di post-bop a volo libero, dove la trasversalità non fuoriesce mai dal perimetro consentito ed il costrutto melodico mantiene sempre un percorso intellegibile.

Il sax di Tracanna, imbeccato dalle traiettorie oblique e mai banali del piano di D’andrea si inerpica su un un’accidentata parete sonora di progressioni armoniche degne della migliore tradizione afro-americana; in particolare nella lunga suite d’apertura, «My Shuffle» spalmata sul tempo di oltre 16 minuti, a copertura dell’intera facciata del disco, dove il dialogo tra pianoforte e sassofono, gli scambi, i call-and-response sono davvero da manuale. La B-side si sostanzia in due sole lunghe tracce, sempre a firma Franco D’andrea: «Antelao», un frenetico up-tempo in cui il pianista esplode in tutto il suo vigore in un’estesa progressione, sostenuta a meraviglia dalla retroguardia ritmica, fino a quando non incontra il sassofono di Tracanna, che spicca un volo ascensionale con una sequenza di cori taglienti giocati sul registro più alto dello strumento. La conclusiva «Monti Pallidi» si sviluppa su una velocità più contenuta, ma nelle sequenze di accordi non c’è nulla di scontato: il piano apre un varco per un rutilante incedere di tamburi, mentre il sax sembra descrivere la scena di un’arrampicata ad alta quota. Un disco per intenditori, ma facile da metabolizzare, a tratti entusiasmante!

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