// di Francesco Cataldo Verrina //

Dave Holland è il musicista inglese che meglio ha saputo intercettare il jazz americano nella sua forma più libera e sperimentale. Tutti conosciamo la sua storia: dopo la «chiamata alle armi» da parte di Miles Davis, che lo volle nel suo organico al posto di Ron Carter, lasciò la vecchia Albione e le sue serate al Ronnie Scott’s Jazz Club di Londra per trasferirsi in USA, dove cominciò una nuova vita artistica partecipando alla realizzazione di alcuni album epocali del trombettista. La lista sarebbe più lunga, ma bastano «Filles de Kilimanjaro» (1969), «In a Silent Way» (1969), «Bitches Brew» (1970) «Live-Evil» (1971) e Water Babies (1976) contenente tracce inedite, fissate su nastro negli anni 1967/68, a consegnare Holland agli annali della storia. Già all’epoca, il bassista di Wolverhampton possedeva una spiccata personalità compositiva e strumentale, legata ad una visione del jazz in continuo divenire, in parte maturata durante la collaborazione con lo Spontaneous Music Ensemble. L’arrivo in America e la collaborazione con Davis ne forgiò il carattere, facendogli guadagnare una nomea che gli consentì di dar vita ad una lunga ed articolata carriera solista e di divenire una delle punte d’eccellenza dell’ECM per oltre un trentennio. Dopo dopo aver formato i Circlee con Chick Corea, Barry Altschul e Anthony Braxton, nel 1972 il bassista diede alle stampe quello che, ancora oggi all’unanimità, viene considerato il suo album capolavoro come band-leader: «Conference Of The Birds».

Nel 1970, Holland aveva iniziato ad alternare l’uso dal tradizionale contrabbasso al basso elettrico (con frequente uso di wah-wah ed altri effetti elettronici) ampliando ulteriormente la sua gamma di possibilità espressive. Dopo aver lasciato l’organico di Miles, tra le sue collaborazioni degli anni Settanta risultano di notevole interesse specie quelle in trio con con John Abercrombie e Jack DeJohnette. Non è un caso, se una cospicua fetta dei più accaniti sostenitori di Holland preferisca la discografia legata ai due suddetti sodali; per contro nel 1980 il bassista iniziò formare una serie di quartetti e quintetti che hanno lasciato orme indelebili nella storia del jazz moderno. Nell’ottobre del 1983, al Tonstudio Bauer di Ludwigsburg con la produzione di Manfred Eicher, Holland registrò «Jumpin’ In», considerato uno degli album più riusciti della sua lunga discografia. Accompagnato da Steve Coleman sassofono contralto e flauto, Kenny Wheeler tromba, tromba tascabile, cornetta e flicorno, Julian Priester trombone e Steve Ellington batteria, Holland suona basso e violoncello in un solido quintetto senza pianoforte che ne conferma le qualità come jazzista completo e compositore, avendo firmato tutti i brani eseguiti durante la sessione, tranne «The Dragon And The Samurai», unica composizione scritta da Steve Coleman.

Nel set vengono sviluppati una varietà di umori, toni, colori e stili mentre i musicisti risultano particolarmente creativi ed affiatati nel interpretare e dilatare il costrutto sonoro del band-leader. L’idea di dedicare «rispettosamente» l’album a Charles Mingus, come recitano le note di copertina, creò un’aura magica in studio, quasi che i musicisti si sentissero osservati dal fantasma del genio di Nogales. Il disco si apre con la title-track, «Jumpin’ In», quasi otto minuti di sviluppo e sperimentazione in tempo reale, attraverso un post-bop energico, infarcito di blues e con qualche linea di febbre ornettiana. I tre ottoni partono quasi all’unisono, quindi l’assolo di trombone di Julian Priestley, mentre il giovane Steve Coleman dimostra di non avere più i denti da latte e suona meglio di quanto non farà in futuro, seguito da un Kenny Wheeler in grande spolvero, mentre dalla retroguardia il tandem ritmico Holland-Ellington traccia le linee guida con dinamismo e precisione. La sensibilità compositiva di Holland si rivela in tutta la sua magnificenza su «First Snow», composizione più lenta ed estetica ma che ribadisce il talento di Holland come compositore, di cui beneficia il flicorno di Kenny Wheeler con un assolo da manuale, basato su mercuriale e sottile equilibrio tra delicatezza e penetrante evocazione, a cui sia aggiungono alcuni splendidi intermezzi in cui i tre fiati intrecciano le loro melodie. L’inizio è obliquo, quasi alla George Russell, anche se il tema ricorda vagamente la colonna sonora di un film alla James Bond. Holland intanto imbraccia il suo arco da guerra che apre la strada all’assolo finale di batteria. La prima facciata dell’album si chiude con «The Dragon And The Samurai», a firma Coleman, una costrutto sonoro dignitoso, ma più schematico e caratterizzato da una tavolozza di cromatismi più rada rispetto ai brani scritti da Holland, ma che propizia alcuni scambi da parte dei tre fiati degni di nota e giocati lungo una strada più accidentata.

La B-Side si apre con «New-One», momento in cui, soprattutto Priester ha la possibilità di brillare, nonostante gli assoli dei singoli mantengano alto il livello dell’esecuzione, sostenuti sempre da un’immarcescibile sezione ritmica. «Sunrise», che dimostra quanto Holland fosse sensibile ad altri stimoli musicali al di fuori del perimetro jazzistico, segna un cambio di mood magnificato dalla prima linea dei fiati e, mentre Coleman passa al flauto, Holland inizia a maneggiare l’arco, sviluppando un’atmosfera non dissimile a «Conference Of The Birds». «Shadow Dance» si sostanzia attraverso una narrazione cinematografica a meta strada tra una spy story ed un melodramma italiano. L’album viene suggellato da «You I Love» eseguita con un tono quasi ironico come se fosse un capriccio, dove i trombettisti mettono sul tavolo le loro carte migliori.

«Jumpin’ In» è un catalogo di emozioni in continua crescita, attraverso il quale si può osservare l’evoluzione di un artista nella sua migliore condizione esecutiva e compositiva. Fin prime battute, si intuisce che Dave Holland sia un passo avanti, non solo rispetto a tanti altri bassisti jazz, ma anche rispetto a molti autori di quel periodo, avendo la capacità di aggiungere costantemente elementi nuovi alla sua musica. In assenza di un pianoforte o di uno strumento accordale dominante, questa sessione richiedeva al quintetto capacità non comuni per riuscire nell’impresa. Come un raffinato disegno stilizzato, ogni scena non ha un confine definito, ma è piuttosto coerente con il totale dell’immagine. Holland aveva avuto sempre avuto un debole per i trombonisti, e l’inclusione di Julian Priester, in tal senso, fu un colpo da maestro. Il batterista Steve Ellington ed il giovane Steve Coleman al contralto e al flauto completarono un potente quadro improvvisativo illuminato dalla tromba a volte obliqua e laterale di Kenny Wheeler.

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