// di Francesco Cataldo Verrina //

Grant Green è stato un chitarrista tecnicamente impeccabile, ma soprattutto foriero di una creatività straripante. Il suo stile, immediatamente riconoscibile, risulta tagliente e ricco di umori, sapiente nell’uso dei toni medi, capace di giocare con le dinamiche del blues e ad imprimere alle improvvisazioni un calore spirituale di chiara matrice soulful. Dotato di una capacità espressiva di forte impatto, i suoi pezzi sorprendono per la varietà di spunti melodici. Peculiarità, quest’ultima, che nasce dal un dichiarato amore per gli strumenti a fiato: soggiogato dalla musica di Charlie Parker il giovane Green passava notti insonni a trascriverne, nota per nota, gli assoli intricati ed illuminanti. Una passione così evidente che lo portò a trasferire alcuni elementi dello stile di Bird sullo strumento a sei corde, sviluppando un modulo espressivo atipico, quasi più da sassofonista che da chitarrista, prediligendo linee melodiche giocate sovente sulle terzine e sulle ritmiche irregolari di derivazione bop, piuttosto che crogiolarsi sulle raffiche di accordi care a molti geni della chitarra.

La figura di Grant Green, molto apprezzato anche al di fuori dello stretto perimetro del jazz, pone l’atavico problema della chitarra nell’ambito dell’hard bop, poco amata e praticata, salvo rare eccezioni. In tale ambito la chitarra ha sempre trovato una naturale collocazione in quel segmento produttivo inquadrato come soul-jazz, dove la chitarra sposava meglio le istanze dell’organo o il legame con un vibrafono. Sono molti i dischi di Green che ottemperano a questa consolidata formula, ma la sua lungimiranza fu quella di avvicinarsi agli strumenti a fiato e di non temere la vicinanza del pianoforte. «Idle Moments», considerato il suo capolavoro assoluto, nasce dalla confluenza di tali elementi: Duke Pearson al piano, Grant Green alla chitarra, Bobby Hutcherson al vibrafono, Joe Henderson al sax ed Al Harewood alla batteria, tutti insieme, come ispirati da un’entità superiore crearono una di quelle alchimie musicali irripetibili, tali da creare un unicum. L’album ha una struttura organizzata in maniera mercuriale. La track-list segue un ordine ben preciso: lento-veloce e poi ancora lento-veloce sviluppando una curva in movimento, anche se apparentemente statica. Le dissonanze armoniche sono interdette, i salti nel vuoto inesistenti, così come le fughe verso l’impossibile; il tutto sembra essere sospinto da una serena brezza in un mare di tranquillità.

Dopo un breve ascolto, però, il fruitore rimane intrappolato nelle maglie di un’intelaiatura sonora abilmente intessuta da ciascuno dei sodali, il quale esegue la partitura con precisione millimetrica. «Idle Moments» assume immediatamente le sembianze di una sirena ammaliatrice che offre al mondo un languita gemma dal taglio classico, accessibile ed accattivante, che porta con sé alcune delle più eleganti interpretazioni del jazz straight ahead di tutti i tempi. La Blue Note Records, simbolo del jazz anni ’50 e ’60 al suo apice commerciale, sfornava un album dopo l’altro con formule consolidate e schemi che, nella loro costruzione, li rendevano immediatamente accessibili alla massa. Spesso questi dischi avevano una title-track che funzionava da singolo apripista. Alcuni finivano persino nei juke-box. Molti brani erano imperniati su semplici groove ritmici che i neofiti ed il pubblico generalista della radio trovano facilmente accessibili, permettendo ad una cerchia di solisti, che si alternavano all’uopo, di mostrare le proprie affinate abilità senza allontanarsi troppo dal baricentro melodico delle composizioni. «Idle Moments» di Grant Green fu uno di questi album.

Il chitarrista trovò una valida spalla nell’ensemble che, come sestetto, riuscì a produrre una sonorità più ricca e piena rispetto alle sue dimensioni. Ognuno dei solisti ebbe molto spazio per le esplorazioni: il tocco di Pearson al piano è costantemente caldo, le sue lunghe catene sonore ricche di saccarosio addolciscono il gelido lampo del metallofono di Bobby Hutcherson, mentre il contrasto fra i due rende l’atmosfera complessiva ancora più intrigante ed efficace; Joe Henderson diventa un morbido cuscino di sostegno per le progressioni di Green, il quale specie nella title-track si produce in una delle performance più belle e intime della sua carriera: «Idle Moments» è una carezzevole escursione di quasi quindici minuti che scorre in una romantica notte di mezza estate. La melodia inizia con un intro pianistico sostenuto da basso e batteria, quindi si espande all’intero gruppo. Green ed Hutcherson procedono in armonia, mentre Pearson colma gli spazi disponibili. Joe Henderson si muove con eleganza limitandosi a spostare il flusso sonoro verso l’ascoltatore: la voce quasi umana del sax rende la melodia ancora più cantabile.

Gli assoli di Green, mentre ricamano il tessuto sonoro, sono puliti ed essenziali, arricchiti solo da qualche ruvido intarsio blues sul finale. La seconda traccia, «Jean De Fleur», entra subito in rotta di collisione con l’opener. Il movimento si fa up-tempo, ma secondo il classico teorema hard bop di casa Blue Note: strofa-ritornello-strofa. Come confessa Bobby Hutcherson nelle note di copertina, furono lui ed Alfred Lion a decidere la lunghezza e l’impostazione dei brani. La melodia è affidata in massima parte al sax ed al vibrafono, con la chitarra che sembrerebbe più interessata a suggerire dalla retroguardia ma che, di tanto in tanto, si riprende lo scettro del comando. La versione di «Django», dedicata al chitarrista-zingaro, così rielaborata acquista nuova forma espressiva, per quanto anomala e sui generis rispetto ad altre versioni molto più canoniche. Ricchissimo di pathos e colore il tocco sulle corde di Green, ne certifica l’abilità nel cesellare frasi intriganti ed imprevedibili senza trascendere in quel virtuosismo un po’ di maniera tipico dei chitarristi dell’epoca. «Nomad» gioca su una quadratura melodica ed una progressione armonica meno convenzionale, ma senza osare più di tanto. I sodali si muovono in maniera telepatica, soprattutto i cambi di staffetta risultano molto precisi e colloquiali. Si percepisce un senso di maggiore libertà. In particolare il sax di Joe Henderson, che rimbalza ogni tanto sul modale, ricorda al mondo l’esistenza di Coltrane che, in quegli anni, stava mutando il corso del jazz moderno. «Idle Moments» è un perfetto esempio cool-bop in giacca e cravatta, dove Grant Green si conferma perfetto arbiter elegantiae senza concessioni agli eccessi o rischiose digressioni. Il grande jazz passa anche da qui.

Grant Green

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