// di Francesco Cataldo Verrina //

Nel suo peregrinare per le varie case discografiche, segno di una carriera discontinua, Joe Henderson ha disseminato tante piccole perle, spesso considerate opere minori rispetto al periodo aureo della Blue Note; alcune di esse sono scomparse perfino dai radar con la correità di una critica distratta e spesso abituata a lavorare all’ingrosso, perdendo di mira il dettaglio. Molti dischi, a differenza di altri, andrebbero calati in preciso contesto ed analizzati in relazione agli eventi e le tendenze di quel dato periodo storico. Nella prima metà degli anni Settanta il jazz mondiale si muoveva su due precise linee di demarcazione: da una parte la fusion jazz-rock-funk propugnata da Miles Davis e proseliti vari; dall’altra il free jazz che si arricchiva costantemente di contenuti etnici e terzomondisti. Superata la fase bop, Joe Henderson, con l’arrivo alla Milestone Records, iniziò a misurarsi sul terreno dell’avanguardia, imponendo un modus agendi del tutto personale, che non si allontanò mai dallo stretto legame con le sonorità latine che, per quasi tutta la carriera del tenorista, costituiranno una sorta di marchio di fabbrica e di contrassegno saliente.

«Canyon Lady» fu dato alle stampe, per la prima volta in USA, nel 1975. Per quanto non certificato all’unanimità dalla critica, rappresenta il momento più alto della permanenza del sassofonista nel roster della Milestone. Addirittura con questo tipologia di album, Henderson si avvicinò all’allora compagno di etichetta McCoy Tyner, sebbene non abbia mai raggiunto lo score di capolavori come «Sahara». Il tenorista dell’Ohio, negli anni Settanta, aveva abbandonato il cosiddetto jazz straigh-ahead (scelta ardita che lo portò al limite della sopravvivenza: gli insuccessi commerciali lo spinsero ad adattarsi a situazioni molteplici e poco gratificanti rispetto al suo background) trasformandosi da musicista hard e post bop in un incessante esploratore alla ricerca di un suono più libero e meno vincolato ai dettami del vernacolo jazzistico tradizionale. Abbandonata la Grande Mela, Henderson aveva cercato una boccata di aria fresca sulla Costa Occidentale stabilendo nuove connessioni e collaborazioni con musicisti di differente estrazione capaci di apportare al costrutto elementi sonori provenienti da varie latitudini. L’album in oggetto, registrato il 1° ed il 3 ottobre del 1973 presso i Fantasy Studios di Berkeley in California, si sostanzia attraverso quattro lunghe tracce (quasi tutte prossime ai dieci minuti), a cui parteciparono numerosi musicisti della Bay Area: Oscar Brashear, John Hunt, Julian Priester, Nicholas Tenbroek, Hadley Caliman, Ray Pizzi, Vincent Denham, George Duke, Mark Levine, John Heard, Eric Gravatt, Carmelo Garcia, Victor Pantoja, Luis Gasca, Francisco Aguabella. Il modo di suonare di Henderson, in quel periodo, era a volte caratterizzato da da una serie di ostinati taglienti giocati tra i due estremi del registro, tanto da ricordare più che Trane, Pharoah Sanders ed addirittura quel suono tormentato ed abrasivo di Archie Shepp, ma la padronanza sullo strumento da parte del sassofonista di Lima era di gran lunga superiore a quello degli illustri colleghi citati.

Henderson, pur spingendosi verso i confini della sperimentazione con intenti fusion, trovò il suo break-even-point in un contesto a lui piuttosto congeniale, tra atmosfere caraibiche ed ispaniche; in particolare il sodalizio con il trombettista ed arrangiatore Luis Gasca apportò al set evidenti connotazioni latin jazz, tanto che «Las Palmas» divenne il momento clou dell’album, con Gasca intento a supportare il sassofonista mediante un vivace ed efficace lavoro di tromba. Saranno determinanti anche l’apparizione di George Duke in due tracce, di Eric Gravatt alla batteria e del conguero Francisco Aguabella, ma soprattutto del pianista Mark Levine, autore di due tracce, compresa quella che da il titolo all’album. L’opener, «Tres Palabras», componimento tradizionale messicano scritto da Osvaldo Farres, si sviluppa attraverso un colloquiale e calibrato dialogo, arricchito da sfumature ed essenze latine, tra il sassofonista ed una piccola big band alla Gil Evans costituita da 13 elementi. Joe Henderson appare in forma smagliante sprigionando dalle fauci del suo sax un’energia contagiosa: splendido l’assolo di tromba di Oscar Brashear. Buona parte del merito va all’arrangiamento di Louis Gasca, che non fa rimpiangere i precedenti trattamenti jazzly operati da Kenny Burrell e Coleman Hawkins. Il successivo «Las Palmas» a firma Joe Henderson che, con la sua pellicola magnetica avvolta nell’elettronica, ricorda ricorda Miles e Zawinul a metà strada tra «Bitches Brew» e «Silent Way», si arrampica sui sentieri impervi di una fusion rovente, la quale, dopo un inizio introspettivo e meditabondo, quasi ingannevole e depistante, finisce per diventare una colata lavica depositata su un groove aspro e tormentato. Nei due componimenti originali del pianista Mark Levine, Henderson opta per il formato sestetto o nonetto.

La title-track, caratterizzata da un impianto morfologicamente funkified, mette in mostra il talento e l’intesa fra Joe Henderson George Duke, materializzandosi come un mid-range intarsiato e puntellato dalle percussioni, in cui spicca il vivido arazzo intessuto dal piano Rhodes di Duke, il quale elabora un magnifico costrutto sonoro intrecciando i fili di una qualità armonica non comune. «All Things Considered» chiude l’album senza sbattere la porta in faccia all’ascoltatore: la linea di demarcazione è la medesima del precedente ma le percussioni diventano più marcate e prominenti, mentre l’assolo di congas di Francisco Aguabella in un duetto con Victor Pantoja dissipa quella sensazione di déjà-entendu, tanto da consentire al parenchima sonoro di mantenere una consistenza fertile e propedeutica all’interplay fra i sodali, senza scadere nella ripetitività e nell’irrigidimento creativo. Come tutte le produzioni di Joe in casa Milestone, anche «Canyon Lady» si sviluppa come una jam-session aperta a più musicisti a rotazione, combinando nuovi concetti sonori e tentazioni avanguardistiche alle tradizionali passioni del tenorista, da sempre diviso tra latin-jazz e funk; nello specifico questo disco rappresenta una delle performance più intense, ma ingiustamente trascurate della sua tormentata carriera.

Joe Henderson

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