// di Francesco Cataldo Verrina //

l bassotuba o semplicemente tuba è uno strumento aerofono a bocchino, appartenente alla famiglia degli ottoni o dei cosiddetti corni a pistoni. Nel corso degli anni, fu impiegato soprattutto nei complessi cameristici o nelle bande militari. La prima tuba (intonata in Fa) fu suggerita dal supervisore musicale dell’esercito prussiano, Friedrich Wilhelm Wieprecht, e venne costruita a Berlino da Johann Moritz nel 1835. Nel jazz trovò largo impiego nelle marching band e nel dixieland, ma con l’arrivo del jazz moderno, sostituito dal contrabbasso, finì per cadere in disuso, essendo uno strumento ingombrante e voluminoso capace di emettere dei suoni talvolta molto attrattivi e simili a quelli di un sax baritono, ma altre volte poco digeribili e non dissimili a certi languori intestinali; di certo non era uno strumento concepito per plasmare una velleità solistica o per un combo di tipo bop. La tuba piaceva molto a Mingus, che la usò in alcune situazioni; soprattutto, nel 1949, fece la sua ricomparsa nel nonetto di Miles Davis per «Birth Of The Cool», ma furono davvero pochi gli esempi di musicisti capaci di suonare il bassotuba in un contesto di jazz moderno e con spiccate capacità di solismo.

Tra i pochi, emerge il nome di Ray Draper, nato nel 1940, il quale nel febbraio del 1957, appena diciassettenne, registrò in una sessione di Jackie McLean pubblicata dalla Prestige Records. Nonostante Draper avesse suonato in sole due tracce, la Prestige volle scrivere sulla copertina dell’album: «Jackie McLean & Co. – Introducing Ray Draper & Tuba», sperando probabilmente in un rilancio di questo strumento, ma premiando soprattutto il valore del giovane talento, il quale nel 1958 si unirà a Max Roach per un tour nel circuito dei vari festival jazz dell’epoca. Quando Ray Draper realizzo «Ray Draper Quintet Featuring John Coltrane», in cuor suo, aveva l’ambizione di fare della tuba uno dei principali strumenti solisti del jazz. L’operazione riuscì a meraviglia, soprattutto per la presenza di John Coltrane, mentre il front line costituito dalla tuba e del sax tenore sviluppò delle sonorità poco usuali ed inattese: il connubio strumentale fu molto azzeccato. Draper possedeva un particolare talento per questo insolito strumento, ma la sua carriera si spense nel breve volgere di qualche anno ed, a partire dal 1960, non mise più piede in uno studio di registrazione. Tutto ciò non sminuisce minimamente la sua bravura e l’album «Ray Draper Quintet Featuring John Coltrane», oltre ad essere il climax della sua carriera, costituisce anche un specie di unicum nella storia del jazz moderno.

L’unicità dell’album, da sola, varrebbe già il prezzo della corsa, ma il progetto nel suo insieme è di estrema qualità e di pregevole fattura, rappresentando uno di quei momenti magici, quando in quello scorcio di anni Cinquanta, nei set si stabilivano delle particolari alchimie, quasi un allineamento di satelliti, dove tutte le forze in campo, naturali e sovrannaturali, si disponevano in maniera tale da favorire l’esplosione del talento e di coinvolgere sinergicamente tutti i membri del line-up, i quali, nello specifico, appaiono in uno stato di grazia. Siamo in presenza di un disco che non ha rivoluzionato la storia del jazz moderno, ma è il frutto succoso di un ottimo lavoro di squadra, imperniato su un hard-bop alquanto straigh-ahead, nonché locupletato proprio dal mutualistico afflato tra il sassofono di Trane e la tuba di Draper. Coltrane, pur essendo all’epoca ancora un musicista in evoluzione, fu certamente il valore aggiunto dei questa inconsueta sessione, registrata il 2 dicembre del 1957 al Van Gelder Studio, mentre Draper si caratterizzò soprattutto come arrangiatore ed autore. Le tre composizioni presenti sul prima facciata dell’album sono farina del suo sacco, così come da manuale risulta l’arrangiamento di «Under Paris Skies» e delle altre cover presenti sulla B-Side. Coltrane è certamente l’elemento galvanico dell’album, ma l’intreccio e l’intrigo fra le timbriche del basso suba e del sax tenore producono una serie di sensazioni ed ambientazioni sonore del tutto inedite per quel periodo.

La sezione ritmica, è costituita da Gil Goggins al piano, il quale aveva suonato con il primo Miles Davis e Lester Young (spesso chiamato Bud Powell per la sua bravura e le affinità con quello che era il suo idolo), Spanky De Brest al basso, che si era fatto le ossa nei Jazz Messengers di Art Blakey e Larry Ritchie alla batteria, il quale aveva suonato con B.B. King, Sonny Rollins e con Fredd Red sui palcoscenici di Broadway. L’album si apre con «Clifford’s Kappa il primo brano composto da Draper in chiave maggiore, solitamente il bassotubista scriveva in chiave minore. L’impianto ritmico-armonico, pur nella sua schematicità, si sviluppa su due fronti: dapprima su un piacevole interscambio tra sassofono e tuba, quindi il piano che battibecca in maniera alternata con il sax o con la tuba. Nel suo assolo Draper barrisce come un elefante, mentre Coltrane si smarca e s’invola verso l’alto come un falco reale: inarrivabile per chiunque in quel preciso momento storico. Gil Goggins attende il suo momento e sul finale conversa con il basso in una lingua comune e comprensibile ad entrambi; in chiusura un serrato botta e risposta tra bassotuba e tenore conduce la ciurma verso un approdo sicuro. Gli altri due temi, «Flidé» e «Two Sons» seguono il vecchio schema compositivo. La prima sembra intagliata per consentire a Coltrane di giocare a tutto campo, mentre la tuba agisce da arbitro delimitando a tratti gli spazi, complice una sezione ritmica che non bada a spese. Anche «Two Sons», modellata in salsa hard bop per favorire tutto il line-up, sembra però cucita su misura per Coltrane e per le possibilità di interplay col bassotuba.

La seconda facciata si apre con uno standard di Sonny Rollins, «Paul’s Pal», ed è incredibile come Coltrane si adatti ad un’atmosfera di tipo calypso, mantenendo lo stesso aplomb formale e tonale del Colosso, apportando solo qualche variante nella fase improvvisativa che risulta più nervosa e tagliente. Le uniche variazioni sono rappresentate proprio dall’interscambio con la tuba di Draper e dall’ottima retroguardia che rimodula il tempo velocizzandolo rispetto all’originale. «Under Paris Skies» è un motivo reinventato dal band-leader e lontano dai soliti standard usati nel circuito jazzistico. Con consumata abilità, Draper (all’epoca di questo sessione non aveva neppure 18 anni) lo destruttura e lo ricompone e lo adatta ad una performance di hard-bop progressivo, che si sviluppa gradualmente dopo un abbrivio sommesso, agevolando l’interplay fra i sodali e la progressione del sassofono che mostra, in tutta chiarezza, la forma del Coltrane che verrà. Per contro, in «I Hand’t Anyone Till You», Coltrane si allontana dal set ed il gruppo si trasforma in un quartetto che divaga su un blues urbano, annerito dallo smog di una città sonnolenta e dal costante borbottio del bassotuba che rende l’atmosfera vagamente retrò. A distanza di quasi sessantacinque anni, risulta difficile stabilire o sapere (non ho informazioni in merito) quanto il set fosse stato preparato e in che misura il giovane Ray Draper sperasse nella partecipazione di Coltrane. Analizzando attentamente le tracce, però, si capisce che il modulo costruttivo è finalizzato alla presenza di sassofonista tenore del peso artistico di Coltrane o equipollente, ed in quel momento, a parte Rollins, su piazza, ce n’erano davvero pochi con un flottante di crescita così attivo. A vantaggio di questa ristampa in vinile della Sawing Records, va sottolineata, senza tema di smentita, soprattutto la qualità audiofila.

Ray Draper

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