Dinuzzi1

// di Francesco Cataldo Verrina //

UN CONFRONTO SERRATO CON LA CONTEMPORANEITÀ, SENZA MAI TRALASCIARE LA VERA TRADIZIONE DEL LINGUAGGIO JAZZISTICO.

Uno degli errori più devastanti commessi da una certa discografia italiana consiste nella certezza di poter bypassare la tradizione africano-americana, da quando una serie di infausti profeti dell’olocausto creativo, appartenenti alla stirpe di Cassandra, hanno cominciato a divulgare l’idea di una possibile «via europea» di accesso al jazz. Per decenni, tutto ciò non ha fatto altro che alimentare una produzione minimalista, squallida e provinciale, fatta di prodotti che si beavano della riscoperta di radici sonore e ritmiche indigene e locali, in grado di surrogare gli assunti basilari della sintassi jazzistica, invertendo il concetto di improvvisazione e basandolo più su un criterio di diversità e di alterità che non di abilità creativa ed esecutiva.

Ascoltando le prime note di «Invisibile» di Paolo Dinuzzi, pubblicato da GleAM Records, ci si accorge immediatamente che alcuni pericoli siano stati fugati. Sarebbe d’uopo domandarsi: un bassista elettrico, che pratichi un certo tipo di sintassi sonora, quali modelli di riferimento potrebbe o doverebbe avere, se non rintracciabili nell’ambito dell fusion-jazz degli anni Settanta? La mente corre a Jaco Pastorius, Marcus Miller, John Patitucci, Miroslav Vitouš o Stanley Clarke, perfino James Jamerson (nome spesso ignorato da molti bassisti elettrici moderni). Al netto di ogni improbabile accostamento, a mano a mano che ci si addentra nel parenchima sonoro del disco di Dinuzzi, ci si rende conto che il terreno di coltura è quello di una fusion moderna narrata con il linguaggio immediato del modern-mainstream. Ma non stiamo cercando la macchinetta etichettatrice per mettere uno bollino e riporre l’album in uno dato scaffale.

Se si analizza rapidamente il quadro sintomatico del jazz italiano, ci sia accorge che le profezie germaniche e autonomistiche rispetto al «popolo del blues» di creare un simil-jazz europeo ha mandato in corto circuito i neuroni di una fitta schiera di critici e produttori discografici alla ricerca del vello d’oro nelle gelide lande scandinave, in Cornovaglia, nelle terre di Dracula o, nello specifico italiano, andando a frugare nei meandri del patrimonio folklorico, al solo scopo di fregiarsi dell’epiteto di jazz mediterraneo, che spesso fa molto «pizza, spaghetti, tarantella e mandolino». Paolo Dinuzzi, al netto delle origini pugliesi, non cerca spunti nella pizzica o, per aver vissuto in Germania, non si lascia condizionare da un wagnerismo elitario e finto-jazz alla ECM. Il fatto di aver avuto frequentazioni cosmopolite ed orientali gli ha consentito di usare con la medesima disinvoltura il sistema tonale e le scale modali facendone un sorta di codice sonoro personale, in grado di conferire alla sue composizioni o esecuzioni un carattere più libero e giocato per vie laterali. Uscendo dal ristretto municipalismo del jazz italico e di una presunta superiorità melomaniacale, Paolo Dinuzzi (basso elettrico) e soci, Sabino Finon sassofono tenore, Giancarlo Pirro chitarra elettrica e Riccardo Gambatesa batteria, riescono a riportare in auge, con un piglio del tutto personale, talune sonorità che richiamano più i Weather Report o gli Steps Ahead che non il folklore celtico, il melodramma verdiano, i saltelli nell’aia o violini gitani. Va da sé che un bassista elettrico, che scelga come strumento accordale una chitarra elettrica, sta sicuramente guardando e puntando in una determinata direzione.

«Invisibile» di Paolo Dinuzzi ha tutti gli attributi ed il perfetto quadro ormonale di un disco jazz contemporaneo, senza lasciare possibili fraintendimenti o letture tra le righe. Il quadro emotivo, certamente ambientale ed esperienziale, che stimola l’autore o l’esecutore è cosa ben diversa dalla sintassi usata descrivere quel genere di emozione o per sviluppare quel dato tipo di narrazione. Dinuzzi ha riversato nelle sette composizioni presenti nell’album, tutta farina del suo sacco, le esperienze di una vita vissuta in giro per il mondo, che lo legano a fatti e persone, usando un specifico metro ritmico-melodico-armonico a seconda del clima sonoro che intendeva creare intorno a quel ricordo o quella suggestione. Nell’opener dell’album, rappresentato dal brano eponimo, «Invisibile», l’idea del conflitto viene esemplificata da una dissonanza costante che sembra delineare due rette parallele che non si sfiorano mai, a tratti costituite da un fraseggio chitarristico introspettivo che s’interfaccia con un sax quasi sofferente, mentre la retroguardia ritmica, basso e batteria, creano una sorta di impalpabile sospensione e di distacco dal tangibile. L’autore lo descrive così: «Meno riusciamo ad accettarci, più si inasprisce il conflitto. Il ritmo è sghembo (7/8), come se mancasse sempre un pezzo, il tema si presenta con due linee che si intersecano e si interscambiano, incontrandosi sempre in dissonanza, quasi a rappresentare questi due aspetti della personalità, tra loro in conflitto perenne. Questo brano è dedicato alla mia compagna di vita Annamaria».

«Talking With Nina» è implementato su backbeat vagamente funkified immerso in un tema melodico dal flavour latino. A detta di Dinuzzi, l’andamento dinoccolato del brano sarebbe stato ispirato dal battito degli occhi della sua gatta Nina. «Skin», nonostante il movimento irregolare ed i cambi di mood, si materializza attraverso una melodia facilmente cantabile ed immediata. Il compositore pugliese ne offre questa spiegazione: «Molto spesso ho avuto collaborazioni con danzatrici e danzatori. Immaginate i movimenti frenetici, compulsivi, gli improvvisi stop, trattenendo il fiato, per poi ripartire rincorrendo l’ idea di sé stessi. La fatica, il ritmo, il sudore, lo scavarsi dentro nel profondo e la pelle che a stento trattiene tutto questo». «Quattro» è dedicata al sassofonista ucraino Dimitrij Markitantov; introdotto dal basso, il tema sembra incunearsi sul tracciato di un’evidente imprevedibilità esecutiva; in particolare l’ensemble ama guardare verso i quattro punti cardinali della musica con i suoi umori cangianti e meticci, dove la dissonanza diventa una sorta di narrazione multietnica. C’è perfino una fuga del chitarrista, invasato da un impeto del tipo rock-hero alle prese con un assolo blues-psichedelico alla Jimi Hendrix, sostenuto da una sezione ritmica imponente e da un sax che taglia l’aria come una furia. «Quattro» è brano più fusion nel senso letterale del termine, dove elementi molteplici confluiscono verso un nucleo centrale; soprattutto è il perno che regge l’idea complessiva dell’album e del suo concept sonoro.

«South» si basa su una progressione armonica che consente la sax di intessere una melodia crepuscolare e brunita, pur sotto la scansione ritmica di una retroguardia che cammina spedita e non concede aria ferma. Dinuzzi la rappresenta così: «Avendo vissuto vent’anni in Germania, ho sperimentato sulla mia pelle quella sensazione (la malinconia) che ti porta a rimpiangere romanticamente, un’idea, che poi con la realtà ha poco o niente a che fare». «I’m Back» si basa sul contrasto creato da una ritmica metronomica su cui danza una melodia festosa, allegra e scanzonata che consente al sax e alla chitarra di attingere a qualche antica suggestione, come chi assapora un qualcosa dopo anni di lontananza. Dice l’autore: «Ho scritto questo brano nel momento in cui sono tornato in Italia, nella mia città, Barletta. Già dalle prime note del tema si può notare una baldanza e un ottimismo ingiustificati, tipici di chi torna al Sud con mille idee da realizzare, per poi scontrarsi con una realtà fatta di clientelismo e piccoli feudi. Durante il solo di batteria, si fa strada un loop, che è quasi un mantra, una voce fuori campo, che recita pressapoco così: chi te l’ha fatto fare, chi te l’ha fatto fare…)».

«Emergency», per la natura dell’argomento cui fa riferimento, si srotola su un mood meditabondo, pieno di dubbiosità e di ipotetiche domande. Conferma Dinuzzi: «Questo brano è dedicato alla memoria di una persona che avrei visto utopicamente come presidente di questo paese: Gino Strada. E’ un brano delicato, come chi si prende cura di qualcuno, per poi chiudersi con un solo di basso in totale solitudine, come soli sono quelli che non rientrano nelle logiche malate di questo mondo». «Invisibile» di Paolo Dinuzzi, fuori da ogni metafora, si candida a diventare uno dei più riusciti album di jazz italiano usciti in questo primo scorcio del 2023, dimostrando che è ancora possibile trovare forti suggestioni, stimoli creativi e idee compositive capaci di confrontarsi con la contemporaneità, senza per questo dimenticare la vera tradizione del linguaggio jazzistico.

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