RICORDO DI FREDDIE HUBBARD SOTTO IL CIELO D’AGOSTO, IN UN’ESTATE ROMANA DI QUALCHE ANNO FA

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Freddie-Hubbard

// di Roberto Biasco //

ANTEFATTO: Il 29 Dicembre del 2008, a seguito dei postumi di un infarto, all’età di 70 anni, si è spento in ospedale Freddie Hubbard, una delle più grandi trombe del jazz moderno. Vogliamo qui ricordare le emozioni che seppe trasmetterci dal palco.

A metà degli anni Ottanta il Teatro Olimpico era il punto di riferimento per i migliori concerti di Jazz sulla piazza di Roma. In particolare, nel 1987, per il ventennale della scomparsa di John Coltrane ci fu un festival assolutamente memorabile. Forse uno dei più emozionanti concerti di jazz cui ho assistito risale proprio a quei giorni, quando una formazione stellare con Freddie Hubbard, Sonny Fortune, Mc Coy Tyner, Reggie Workman ed Elvin Jones riunita appositamente per l’occasione, seppe esprimere l’omaggio più sentito allo spirito ed alla musica di John Coltrane, un tributo potente all’amico fraterno e compagno d’arte. Ricordo ancora con commozione a figura ascetica ed imponente di Elvin Jones che si staglia sul fronte-palco del Teatro Olimpico, mentre ringrazia sentitamente il pubblico dopo un concerto a dir poco travolgente.

Freddie Hubbard, il più estroverso, gagliardo e sfrontato dei trombettisti “hard bop” su quel palco di tanti anni fa pareva invincibile: fisico robusto e compatto, stretto in un doppio petto gessato di sartoria, occhiali scuri, piglio grintoso, gigioneggiava sul palco da par suo, assentandosi ogni tanto con nonchalance dietro le quinte per riaffacciarsi quando era il suo turno, sparando i suoi assoli infuocati come lava incandescente, facendo capire che, quando lui era in serata, e quella sera certamente lo era, non ce n’era per nessuno! Un toro del Bronx in doppiopetto grigio. Tanto sapeva essere feroce e tagliente sui tempi veloci, quanto lirico e suadente nelle “ballads” accarezzate dalla voce sensuale del flicorno. Negli anni novanta la sua stella parve eclissarsi: dischi mediocri, pochi concerti, fino alla scomparsa dalle scene, legata dicono a problemi al labbro, incubo di qualsiasi trombettista, ma ancor più a seri problemi personali e di salute che lo hanno portato più volte sull’orlo del baratro.

Ritornò con fatica all’inizio del nuovo decennio per ricapitare a Roma, a Villa Celimontana, nell’estate del 2002, quando apparve – in verità un po’ invecchiato e ingrassato – alla testa di un gruppo di giovani musicisti. In quella serata da estate romana, l’ottanta per cento del pubblico era formato da gente che apprezzava il jazz nella misura in cui, indipendentemente da chi fosse sul palco, creava un piacevole sottofondo ad una serata romantica, con una spolverata superficiale di musica e cultura, che non guastava per apparire “a la page”. Insomma quella sera, come spesso accade, ebbi la netta sensazione che la maggior parte dei presenti, esclusi i soliti aficionados, non sapesse nemmeno chi fosse Freddie Hubbard. Il concerto iniziò in un’atmosfera di routine, ma gli Dei erano dalla nostra parte.

Al secondo brano si scatenò un inaspettato quanto repentino temporale estivo con conseguente fuggi-fuggi generale ed momentanea interruzione del concerto. Ma Giove Pluvio fu clemente: piano piano la pioggia si diradò, e mentre gli avventori casuali si defilarono, gli appassionati “veri” si strinsero sotto il palco ed il concerto riprese. Freddie, vedendo un pubblico di irriducibili che non mollava per due gocce d’acqua, riprese coraggio, spronò la band e ricominciò alla grande. Nessuno si sarebbe aspettato di rivedere il Freddie Hubbard dei tempi d’oro, ma con la sua classe, poteva fare ancora la sua bella figura senza strafare, magari sfruttando i tempi lenti ed il registro intermedio dello strumento, giocando sulla difensiva. Come quei classici centrocampisti di una volta, che, raggiunta una certa età, riuscivano a far girare la squadra giocando in venti metri quadrati di campo e facendo correre gli altri. Ma Freddie Hubbard, uomo poco incline al compromesso o alle mezze misure, non era davvero “un abatino”.

Con la grinta e l’incoscienza dell’artista di razza, si donò al pubblico affrontando tutti gli assoli più spericolati con un coraggio davvero imbarazzante: la tromba non ce la faceva, si arrampicava a malapena sugli acuti che spesso gli restavano in gola, ma lui non se ne curava, e come il capitano Achab nella tempesta proseguiva imperterrito, gettando ad ogni brano il cuore oltre l’ostacolo. Freddie come trombettista non era più lui, ma come uomo diede una lezione di coraggio e di lealtà, quasi un monito: il vero Freddie Hubbard è questo, e tanto ne è rimasto, prendere o lasciare! Come un pugile alle corde vacilla, combatte mai domo, non si arrende e alla fine, seppur ammaccato, vince ai punti, ma con l’ovazione del pubblico ed il rispetto dell’avversario. Paradossi della vita, la musica non è come la matematica: il musicista suona “male” ma il concerto è superbo! Vai a capire…..

L’EREDITA’ MUSICALE

Freddie Hubbard è stato, assieme all’amico e coetaneo Lee Morgan, il più credibile discepolo di Clifford Brown, diventando a sua volta la tromba “hard bop” per antonomasia. Impossibile citare in questa sede un pur breve elenco delle sue numerose illustri collaborazioni, basti ricordare che, ancor giovanissimo, nella prima metà degli anni sessanta, ha lasciato la sua impronta in molti tra i capolavori assoluti del jazz moderno, coniugando tradizione ed avanguardia, al fianco di maestri come John Coltrane – in “Olè” e “Ascension” – Ornette Coleman – “Free Jazz” – Eric Dolphy, Sonny Rollins, Oliver Nelson, Dexter Gordon, Art Blakey, Max Roach, collaborando a più riprese con Herbie Hancock e Wayne Shorter, prima, durante e dopo il loro sodalizio con Miles Davis. Ha inoltre inciso – soprattutto tra gli anni sessanta e settanta – una quantità di album come leader, molti dei quali di assoluto livello. Tra i tanti ricordiamo “Open Sesame”, “Ready For Freddie” e “Hub Tones” per la Blue Note, “Caravan” e “The body and the soul” per la Impulse!, “Red Clay” e “Straight Life” per la CTI – Sony.

(Articolo parzialmente pubblicato sul settimanale LEFT nel gennaio 2009).

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