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La modernità di «Selfie» risiede nella capacità di Fasoli di coniugare essenzialità e complessità, semplicità apparente e articolazione frattale, senza mai indulgere in ridondanze. Ogni episodio sonoro si colloca in un continuum che riflette una logica di conurbazione creativa, concepita con rigore ed immaginazione.

«Selfie», pubblicato nel 2018 dalla Abeat Records, si dispone su una linea evolutiva che trova radici in due lavori precedenti, «Haiku Time» e «The Brooklyn Option», ciascuno portatore di una specifica fisionomia sonora e di un diverso grado di sperimentazione. Nel primo, la scrittura di Fasoli si orientava verso una forma breve e concentrata, quasi epigrammatica: la logica dell’haiku veniva trasposta in musica mediante cellule tematiche essenziali, capaci di condensare in pochi tratti un universo di suggestioni. La concisione non implicava riduzione, bensì intensificazione, con un uso calibrato delle pause e delle rarefazioni timbriche che conferivano al progetto un carattere contemplativo e meditativo.

Nello svolgimento di «Haiku Time», «The Brooklyn Option» e «Selfie» s’osserva un’unica traiettoria che muta profilo acustico, ampiezza formale e logica armonica, mantenendo però una medesima economia tematica: in «Haiku Time» la cellula melodica, ridotta e incisiva, governa il discorso con pause strutturali e pedali modali che aprono spazi d’aria funzionali all’ascolto analitico; «The Brooklyn Option» estende quella cellula in un dialogo più complesso con Matt Mitchell, facendo leva su percorsi accordali obliqui, incastri ritmici e controcanti che trasformano la linearità in policromia; «Selfie» metabolizza entrambe le pratiche e, mediante un quartetto di straordinaria lucidità, rilancia l’idea minima dentro una suite di rimandi interni, dove la voce del sax non sovrasta, ma orienta l’organismo, mentre il pianoforte articola connessioni con contrabbasso e batteria in virtù di un contrappunto di registri e densità calibrate. L’unità non deriva da formule precompilate, piuttosto dalla disciplina del voice-leading, finalizzata a predisporre un collegamento fluido e melodico, minimizzando salti e sforzi strumentali. La concisione di «Haiku Time» non si esaurisce nella brevità, agisce come principio ordinatore che ritorna in «Selfie» sotto forma di nuclei motivici ricorrenti e micro-variazioni ritmiche: la pausa non è semplice arresto, diventa respiro formale che incide il tempo e consente al colore sonoro di mutare senza enfasi, con una velatura acustica controllata ed una fisionomia del suono sempre misurata. La dialettica newyorkese di «The Brooklyn Option» – con Mitchell a tessere linee interne ed a far dialogare piani armonici paralleli – riemerge in «Selfie» come competenza condivisa: il pianoforte non decora, organizza; il sax non impone, orienta; la sezione ritmica non spinge soltanto, rifinisce e ridisegna. Il risultato non è somma, ma rifrazione, in cui gli elementi di «Haiku Time» fungono da matrice, quelli di «The Brooklyn Option» da catalizzatori, mentre «Selfie» ne estrae un linguaggio che alterna trasparenza e complessità con naturalezza, evitando linearità ovvie e opacità gratuite.

Sul piano armonico, la continuità si legge nei passaggi da centri modali elastici a campi policentrici. «Haiku Time» privilegia pedali e sovratoni controllati, con progressioni scabre e intervalli ampi che lasciano tralucere il disegno; «The Brooklyn Option» inserisce cromatismi obliqui, sostituzioni e incastri che deviano la cadenza, aprendo a poliritmie sottili e a sincopi che dilatano il periodo; «Selfie» governa questa doppia eredità con una logica frattale, riproponendo cellule trasfigurate in metrica variabile, alleggerendo o inspessendo l’imbastitura espressiva secondo necessità, e distribuendo l’equilibrio tra argomentazione del sax e invenzione pianistica. In «Squero» la spazzola non svolge un ruolo ornamentale, delimita micro-impulsi che rendono leggibile la forma, il basso disegna traiettorie con quarte e quinte che flettono il centro, il piano inserisce accordi a grappolo con voci interne mobili, il sax sovrappone linee legate e staccati che ridefiniscono la sintassi. L’interdisciplinarità affiora senza ostentazione: l’idea di misura breve che informa «Haiku Time» richiama il rigore compositivo di certi poetici minimalismi visivi, dove il segno non illustra, ma organizza; la trama dialogica di «The Brooklyn Option» vibra come un tessuto urbano compresso e stratificato; «Selfie» assume la forma di un teatro sonoro con quinte mobili – non per scenografia, ma piuttosto per disposizione dell’ascolto – dove ogni episodio sonoro s’innesta nel respiro complessivo e ciascun profilo acustico viene lucidato per sottrazione. Ne emerge un Fasoli preparato e sensibile, tecnicamente raffinato e consapevole, che, facendo leva su un controllo formale maturo, trasforma l’essenzialità in eloquenza musicale e la complessità in chiarezza analitica, senza mai cedere a abitudini lessicali o a gesti prevedibili.

Nello specifico, «Selfie» sancisce una pagina musicale che conferma la maturità di un percorso ormai consolidato e al tempo stesso ancora fertile di invenzioni. Il sassofonista veneziano, forte di una carriera segnata da continuità e rinnovamento. La formazione, composta da Matt Mitchell al pianoforte, Matt Brewer al contrabbasso e Justin Brown alla batteria, si distingue per coesione e duttilità; dal canto suo, la sezione ritmica sostiene e rilancia con energia calibrata, mentre Mitchell, pianista di solida formazione e sensibilità inventiva, battibecca con Fasoli secondo una logica di contrappunto continuo, mai ridotto a semplice accompagnamento. Le composizioni delineano strutture essenziali, quasi diagrammi sonori, dove ogni strumento si prolunga nell’altro generando un circuito armonico di precisione matematica e di suggestione poetica. L’album sul richiamo a tratti monologico del sax, cui il pianoforte risponde con frammenti che si ampliano progressivamente fino a costruire un tessuto condiviso con basso e batteria. La scrittura si sviluppa come una suite ad incastri, in un afflato orchestrale, evocando ambientazioni cameristiche che rimandano a esperienze con Kenny Wheeler, ma trasposte in una dimensione nordica e crepuscolare.

La modernità di «Selfie» risiede nella capacità di Fasoli di coniugare essenzialità e complessità, semplicità apparente e articolazione frattale, senza mai indulgere in ridondanze. Ogni episodio sonoro si colloca in un continuum che riflette la logica di conurbazione creativa, concepita con rigore e immaginazione. Mitchell si rivela interprete ideale, capace di fondere introspezione ed energia, mentre Brewer e Brown garantiscono una base ritmica che non si limita al sostegno, ma diventa parte integrante della costruzione tematica.«Parsons Green» apre il disco con un monologo del sax che stabilisce subito un centro modale mobile, quasi un richiamo rituale. L’ingresso del pianoforte di Mitchell non si limita a introdurre un tema, bensì a costruire un contrappunto che si espande progressivamente, mentre basso e batteria modulano l’impulso con accenti discreti. La composizione si sviluppa come un preludio che già contiene in nuce la logica auto-simmetrica dell’intero progetto.«Kammertrio» porta il discorso su un piano cameristico: Fasoli sovraincide due linee di sax, creando una polifonia che richiama la scrittura orchestrale, con il contrabbasso a definire l’ossatura intervallare e la batteria a scolpire micro-metrie che alleggeriscono la trama. L’atmosfera rimanda a un camerismo nordico, ovattato e crepuscolare, ma rielaborato con rigore armonico e senza concessioni descrittive. «Far» e «Pauly» introducono un registro melodico più cantabile, quasi intermezzi che spezzano la tensione e offrono un respiro lirico. Brewer articola linee di basso che fungono da sostegno e da melodia parallela, mentre Mitchell inserisce progressioni ellittiche che deviano la cadenza, aprendo a un senso di lontananza e impercettibilità.

«Legs», uno dei componimenti più estesi dell’album, si concentra sul contrabbasso, che assume funzione narrativa: il monologo di Brewer pulsa con regolarità cardiaca, mentre il pianoforte si muove secondo la logica fasoliana, senza abbandonarla, bensì arricchendola con una cinetica semantica. L’ingresso del sax completa il racconto, trasformando la linearità in dialogo. «Squero» s’illumina grazie alle spazzole di Brown, che non svolgono ruolo ornamentale ma definiscono micro-impulsi ritmici. Il sax dispensa fiotti di luce, il pianoforte elargisce accordi a grappolo con voci interne mobili, e il basso disegna traiettorie intervallari che flettono il centro tonale. «No Kidding» si presenta come un duello serrato tra piano e sax, con la sezione ritmica che non si limita a sostenere, ma propulsiona e rilancia. La dinamica risulta continua, mentre la sfida s’inscena sulla scorta di contrasti che non degenerano mai in opposizione, ma si risolvono in un equilibrio fatto tensione e rilascio. «Fit» si schiude con un intro riflessivo di Mitchell, cui s’aggancia il profilo sinuoso del sax. Il dialogo muta presto in call-and-response, fino a quando il pianoforte riguadagna la scena in solitudine, quasi a ribadire la centralità del suo ruolo nel quartetto. Fasoli risponde con curvature melodiche che s’incuneano tra le voci, Brewer e Brown trasformano l’accompagnamento in materia viva, sgranando accenti, sospensioni e ripartenze. «Nyspel» e «Difference Of Emphasis» suggellano l’album con una logica teatrale: scenografia minimale, successione di quadri sonori, interventi del leader che entrano ed escono arricchendo la trama con nuove storie. La suite si compone come un teatro giapponese, dove la musica occupa il centro e ogni voce contribuisce a un organismo unitario. «Selfie» si presenta dunque come un capitolo decisivo nella discografia di Fasoli: un lavoro che, pur radicato nella sua poetica essenziale, apre prospettive nuove e conferma la statura di un musicista dotato di sensibilità acustica, inventiva strutturale e consapevolezza critica; un progetto che merita di essere considerato non soltanto come prosecuzione di un percorso, bensì come vertice di una ricerca musicale che continua a sorprendere per lucidità e fecondità.

Claudio Fasoli
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