di Guido Michelone

Sul finire degli anni novanta emerge in Piemonte l’estro di DJ Gas tra i primi dj della zona monferrina a offrire anche jazz, in mezzo a molti altri suoni, convinto che la musica sia d’ascolto sia da tappezzeria riguardi da vicino le azioni, i sensi, i comportamenti soprattutto in quelle che egli definisce ‘situazioni di accoglienza’. DJ Gas diventa un dj di jazz a pieno titolo nel momento in cui inventa e realizza il podcast chiamato all’italiana ‘Ritmo Sincopato’ (espressione usata ironicamente alludendo a quando l’autarchia proibisce di fatto le nuove parole straniere) proponendo esclusivamente dell’ottimo jazz italiano, come egli stesso spiega ai lettori di Doppio Jazz per quest’apposita intervista.

D In tre parole chi è DJ Gas?

R Mi chiamo Andrea Gasperin, essendo nato nel 1976 i fenomeni musicali che mi hanno toccato maggiormente sono stati la musica “house” e l’ “hip hop”, attraverso lo studio delle loro radici sono quindi entrato in contatto con la storia afroamericana ed ho scoperto altre loro forme di espressione musicale: il jazz, il funk, il soul, la disco. Tutte queste forme, questi generi, sono strettamente intrecciati tra loro a causa delle radici comuni e delle influenze reciproche e rappresentano un’ampia parte della fondazione della cultura afroamericana. Il fatto poi la musica abbia influito sulle loro battaglie per i diritti civili mi ha sempre affascinato, pensiamo per esempio al “Rinascimento di Harlem”.

D Perché questo nome?

R Deriva dal mio cognome, più che un nome d’arte è il mio soprannome. 

D Andrea, ora inizia a raccontarci in breve la tua vita.

R Sono andato a scuola dalle suore domenicane, ho iniziato a “mettere i dischi” quando avevo 16 anni, ho studiato i primi due anni alla Facoltà di Psicologia a Torino poi ho smesso perché “distratto” dalla musica che iniziava a portarmi denaro. Ho lavorato come educatore, come tecnico alla lotta alle zanzare per la regione Piemonte, nella radiofonia in varie occasioni, ho lavorato come consulente musicale per produzioni televisive e come regia audio, ho organizzato un centinaio di concerti jazz, sono stato per sette stagioni a Rodi come dj, poi sono diventato sommelier, ora affianco le attività sul vino alle attività musicali, la più recente delle quali è la produzione del podcast Ritmo Sincopato che racconta il nuovo jazz italiano.

D Cosa ascoltavi da piccolo?

R Il primo movimento è stato verso la musica da ballo popolare nei primi anni 80, a grandi linee Italo-Disco e Synth-pop, ma ero molto piccolo ed inconsapevole dei miei ascolti, poi da adolescente ho ascoltato tanta radio, sempre musica da ballo, ma la radio commerciale allora era molto diversa da quella di oggi, Albertino da Radio Deejay proponeva un linguaggio molto fresco studiato a tavolino per i giovani anni 90 e la musica che metteva era qualcosa di nuovo e talvolta alternativo, riusciva ad intercettare la controcultura giovanile del periodo. Oggi mi sembra invece che Radio Deejay (per fare un esempio di radio nazionale) metta solo musica al gusto di pistacchio, una volta invece anche B-Side di Alessio Bertallot era una finestra che apriva possibilità musicali completamente diverse ed affascinanti. 

D E come sei arrivato alla professione di DJ?

R Quando andavo all’oratorio ero quello che faceva le cassette per le feste, per questo motivo ad un certo punto mi è stato chiesto da un dj amatoriale di aiutarlo a mettere i dischi ad un compleanno, è così che ho cominciato. Visto che in quell’occasione mi sono divertito molto ho poi risparmiato per comprare dei giradischi.

D Ti definiresti un DJ del jazz o preferisci essere associato ad altri mestieri della musica?

R A cavallo tra la fine degli anni novanta e l’inizio dei duemila sono stato tra i primi dj della mia zona a proporre musica che non fosse esclusivamente da ballo assecondato dalla mia propensione alle colonne sonore e riattualizzando suoni passati con l’elettronica ed il jazz. La musica in sottofondo condiziona il modo in cui agiamo, i nostri sensi, il ritmo delle nostre azioni e per questo motivo è molto più importante di quanto si possa pensare, specialmente in situazioni di accoglienza. Ogni luogo ha la necessità di una musica specifica, come ogni vino rende di più o di meno abbinato ad un certo piatto. Non mi definisco un dj del jazz perché non metto solo jazz ma quasi tutto lo spettro della musica “black” di cui il jazz è una parte e lo faccio con musica del passato, del presente e in certi casi cerco di anticipare il futuro. Divento invece un dj del jazz quando produco il mio podcast “Ritmo Sincopato” perché in quel caso presento solo ed unicamente jazz italiano.

D Vuoi raccontarci appunto del tuo lavoro a Ritmo Sincopato? Spiegaci come funziona.

R Mi sono reso conto che nel panorama nazionale non si trovava un contenitore che rappresentasse la scena del jazz italiano che è viva ed ha molte facce diverse, ho deciso allora di produrre un podcast per colmare questa lacuna, tramite interviste, invitando agli eventi, presentando le nuove produzioni e raccontando le novità del jazz italiano, così la prima puntata è uscita a novembre 2019, escono circa 8-10 puntate l’anno e tra qualche giorno uscirà la 46° puntata, il formato di Ritmo Sincopato è composto da 2 interviste, le news e l’ascolto di sette nuovi dischi. Scelgo i dischi da promuovere tenendo conto del fatto che il jazz ci si presenta sotto varie forme che cerco di rappresentare tutte di volta in volta: c’è “l’easy listening”, lo swing, le forme più tradizionali, gli innesti elettronici, le contaminazioni folk, l’improvvisazione radicale, il jazz contemporaneo, le conseguenze del bop, le ristampe, la forma canzone, le fughe progressive, cerco di presentare tutto questo perché tutto questo è jazz.

D Oltre questo esiste altro per te?

R C’è anche uno “spin-off” che si chiama Selezione Speciale, esce a cadenze irregolari, ogni puntata è un flusso di jazz italiano di qualsiasi epoca di 40 minuti circa selezionato da giornalisti, collezionisti e dj’s. Collaboro inoltre con le tre associazioni di settore più importanti in Italia: Italiajazz.it, l’Associazione dei Musicisti Italiani di Jazz e l’Associazione delle Etichette Indipendenti di Jazz. Tengo informati gli ascoltatori sui loro progetti, sulle loro attività a sostegno dei musicisti e sugli eventi che organizzano. 

D Possiamo parlare di jazz nel 2024? Ha ancora un senso oggi la parola jazz?

R Ha certamente senso, quello che non ha molto senso è l’atteggiamento di quello che, nell’ambito della musica, viene definito “Riccardone”, chi è il Riccardone? riporto l’incipit della voce di Nonciclopedia: “La sindrome del Riccardone è una patologia cerebrale degenerativa che si manifesta tra musicisti e appassionati di musica con frequenza fino al 50% nell’ambito di tale tipologia di soggetti (…) Tale sindrome limita progressivamente l’apertura mentale verso la musica della persona infetta, portandola ad ascoltare solo, unicamente ed esclusivamente musica ineccepibile dal punto di vista tecnico e sonoro, a prescindere da gusto estetico, originalità, inventiva (…). Nonostante si tratti di una malattia degenerativa, è stato dimostrato che questa è curabile entro e non oltre il primo stadio della malattia, oltre il quale non è nemmeno possibile rallentarne il corso”.

D Quindi per te ha senso…

R Sappiamo che il jazz è un linguaggio ubiquo e che tende a contaminarsi con altre forme per sua natura, credo anzi che nel 2024 ha particolare senso parlare di jazz visto che mi sembra in atto una specie di nuova onda, non solo negli Stati Uniti o in Inghilterra ma anche in Italia, basti pensare a Evita Polidoro, C’Mon Tigre, Satoyama, Studio Murena, Naima Faraò, Rosa Brunello, tanto per fare qualche esempio di innesti di stili che travalicano tempo e spazio e parlano un linguaggio chiaramente jazzistico.

D E si può parlare di ‘jazz italiano’? Esiste qualcosa di definibile come ‘jazz italiano’?

R Per rispondere alla tua domanda divido la storia in tre momenti.

D Va bene, inizia pure.

R Il primo di questi è il momento dello swing negli anni 30 e 40, in quel periodo probabilmente la cifra e la riconoscibilità della produzione italiana era il registro linguistico, cioè la forma in cui venivano scritti i testi delle canzoni. Il secondo e più elaborato momento è negli anni 60 e 70: con 5-10 anni di distanza arriva dagli Stati Uniti, sulla scia del successo di James Bond, il genere musicale “spy” che in Italia trova un suo specifico modo di manifestarsi. La produzione di Cinecittà si butta sui film di genere e ne deriva un filone “all’italiana”, alcune di queste colonne sonore erano così belle che avevano una vita propria sganciata dal film. Erano quindi riconoscibili dal resto del mondo le produzioni di alcuni miei personali super eroi come Armando Trovajoli, Ennio Morricone, Piero Piccioni, Piero Umiliani, Augusto Martelli, Bruno Nicolai ed altri. Il terzo ed ultimo momento è quello che giunge fino ad oggi: la produzione è amplissima rispetto al passato, ciò che si trova nel jazz italiano di oggi e non altrove è la contaminazione folk che cambia da regione a regione.

D Cosa distingue l’approccio al jazz di americani e afroamericani da noi europei?

R Non sono mai stato negli Stati Uniti ma suppongo che ci sia una sostanziale differenza a livello di percezione sociale e di didattica: in Italia il jazz è sentito come qualcosa di difficile e colto, a parte gli anni 60 e 70 è poi diventato qualcosa di nicchia, nel resto d’Europa probabilmente si è meno prevenuti che da noi ma mi pare difficile raggiungere il livello di diffusione degli USA.

D Il jazz deve parlare, attraverso i suoni, di temi sociali, politici, ambientali, filosofici?

R Personalmente quando vado ad un concerto mi aspetto la musica non un comizio, se poi l’autore ama dare il suo punto di vista va benissimo, anzi, attraverso questa esposizione si possono percepire ulteriori quote della sua sensibilità, ma a patto che tale contenuto non soverchi la musica. Nei testi è comunque inevitabile lasciar trasparire qualcosa di sè.

D Come vivi il jazz in Italia anche in rapporto alle tue esperienze sul territorio?

R Sono di Casale Monferrato (provincia di Alessandria) e nel tempo ho organizzato molti concerti sulle nostre colline, più indietro si va nel tempo è più concerti si facevano, ricordo di jam session spontanee. Da anni c’è una sempre minore proposta che purtroppo si appiattisce sulle cover o peggio ancora. In questo periodo storico, non solo in Italia, sembra funzionare la formula del festival, non solo nel jazz ma in generale, non vorrei che si trattasse più di intrattenimento che di musica nel senso che ho paura di scoprire in futuro che i contemporanei vanno ai festival di musica per fare principalmente esperienze non musicali.

D Come giudichi l’attuale situazione in cui versa la cultura italiana, di cui il jazz ovviamente fa parte da anni?

R Ogni giorno ho la sensazione di vedere indicatori del declino della civiltà e della cultura, almeno nel mondo occidentale, ma relativamente al jazz allora penso che dovrebbero essere i mezzi di comunicazione di massa a ricoprire un ruolo di pubblica utilità diffondendo musica, conoscenza, arte, storia attraverso forme semplici e comprensibili per tutti, non intendo su canali tematici appositi, questo già accade. Anche sul versante radiofonico non succede perché il fine è il guadagno economico e se questo è “l’unico” fine allora il rischio è quello di appiattire la produzione verso il banale, lo stereotipo, il pacchiano. I mezzi di comunicazione di massa hanno un impatto particolare sulla cultura e sul sentire collettivo tale per cui dovrebbero essere gestiti secondo generiche linee guida che tengano conto dei risultati sul lungo periodo. Abbiamo scienziati che studiano l’ambito della comunicazione di massa ma sembra che siano tutti impiegati ai servizi dell’imprenditoria e della pubblicità e nessuno al servizio della collettività.

D I tre album jazz che porteresti sull’isola deserta?

R Questa è una domanda classica, ho sempre letto risposte a questa domanda come se la domanda fosse “quali sono tre album importanti per la tua storia” invece io risponderò tenendo conto del fatto che il luogo dove li dovrei sentire è un’isola deserta e non un altro luogo: A New Perspective (Blue Note 1964) di Donald Byrd è un disco che mi ha impressionato per come innesta l’innovazione con la tradizione: forme blues e gospel che mi sembrano proiettate nel futuro. The Doctor Is In… And Out (Atlantic 1976) di Yusef Lateef: c’è qualcosa di perturbante e soulful nell’uso degli strumenti a fiato di Lateef in questo disco, nelle notti di un’isola deserta mi pare opportuno per le quote di esotismo e di psichedelica. Lagoa Da Canoa Município De Arapiraca (Som da gente 1984) di Hermeto Pascoal E Grupo: trovo molto innovativo questo disco per vari motivi, presenta un linguaggio molto fresco e luminoso che anticipa varie cose: la fusione con la musica classica, i campioni vocali ripetitivi, dolci fughe progressive che convivono con forme folk. Hermeto è un mago.

DJ Gas (Andrea Gasperin)

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