// di Francesco Cataldo Verrina //

Calandosi nell’atmosfera di quegli anni, siamo ne l 1973, anno in cui Joe Henderson e Alice McLeod vedova di Coltrane si unirono in questo morganatico artistico, si potrebbe affermare, senza tema di smentita, che «The Elements» sia un album superlativo, ovviamente non è per tutti: per penetrarne l’essenza bisogna essersi già lentamente «mitridatizzati» ascoltando musica free form a vario titolo. Si consideri che, all’interno di questa piattaforma sonora multietnica, tutti i legami fra i musicisti sono volutamente spezzati, non esiste interplay, ma un rudimentale byplay, ossia un veloce passaggio di consegne dall’uno all’altra e viceversa: ogni singolo strumentista esprime una sorta di devanagari interiore teso a creare un universo dilatato ed una dimensione primordiale che guarda verso i quattro punti cardinali dello scibile sonoro, in cui il vernacolo jazzistico è accerchiato dai suoni, dai rumori, dalle voci, dai languori e dai ritmi del Sud del mondo. Questa è la cosiddetta «quarta via» di cui parlava indirettamente Edgar Varese, una tipologia di approccio collettivo che giocò a tutto vantaggio di Alice Coltrane, la quale era comodamente a suo agio in quelle terre di confine. Dal canto suo, Henderson, pur avendo un imprinting più tradizionale, si mostrò comunque alquanto adattivo.

Dopo la morte del marito, Alice Coltrane aveva avuto in mano la leader-ship della maggior parte della produzione discografica di cui era stata protagonista. In «The Elements» la regola d’ingaggio non cambiò più di tanto: fu lei a condurre Henderson su «questo» terreno. Nonostante il sassofonista fosse per l’etichetta Milestone il titolare del progetto, nonché autore di tutte le composizioni, Alice va considerata socia di maggioranza relativa e tutti gli alti sodali come interlocutori inter pares. Un gruppo di visionari che comprendeva il bassista Charlie Haden, il violinista Michael White e il percussionista Kenneth Nash. Il motore mobile del disco, il fulcro del progetto – come già sottolineato – fu però Alice Coltrane, la quale sfoderò un arsenale di strumenti: arpa, pianoforte, tambura e harmonium. Nell’ambito del cosiddetto jazz cosmico-spirituale (o sedicente tale) «In The Elements» è uno dei progetti più riusciti. Per agevolare la comprensione di chiunque abbia una visione della musica non evolutiva ed incapsulata nelle normative statutarie dell’eurocentrismo, riportiamo la descrizione che Edgar Varese dava di se stesso e che molto si attaglia a lavori di questa fattura: «Diventai una sorta di diabolico Parsifal, alla ricerca non del Santo Graal, ma della bomba che avrebbe fatto esplodere il mondo musicale aprendo una breccia dalla quale tutti i suoni avrebbero potuto penetrare, suoni che a quell’epoca – e a volte anche oggi – venivano chiamati rumori». I primi anni Settanta sono stati un periodo di transizione per il jazz, ma soprattutto di travaso di «elementi», secondo il principio dei vasi comunicanti che metteva in relazione il jazz africano-americano con tutte le culture afrologiche orali, caraibico-antilliane ed orientali. Una tendenza al polimatismo ritmico e alle dissonanti sonorità di un terzo mondo globale che diventava, giorno per giorno, un giacimento aureo di materiali estrattivi sempre più lontani dalle vetuste strutture armoniche di derivazione eurodotta. Talune ibridazioni, sovente, risultavano difficili da definire, tanto che furono inventate definizione assai suggestive, quali jazz cosmico o jazz spirituale, forme ibride che nascevano dall’escalation del free jazz in tutte le sue accezioni.

Nel complesso, gli anni Settanta vennero travolti e condizionati dalle principali innovazioni, contaminazioni e deviazioni del decennio precedente: dal free form alla fusion-jazz, dall’improvvisazione dilatata all’innesto di elementi world-etnici che ampliavano a dismisura lo spettro creativo e percettivo dei jazzisti più vicini alle avanguardie. Nel frattempo, l’incorporazione nel jazz di strumenti non occidentali – tecnica sperimentata dallo stesso John Coltrane all’inizio degli anni Sessanta («India» ne fu un esempio lampante) – diedero una forte spinta al cambiamento. Alice Coltrane, che solitamente trovava una sponda più sicura ed affine in Pharoah Sanders, si unì a Joe Henderson per un concept che avrebbe dovuto abbattere le barriere architettoniche delle vecchie strutture jazzistiche, offrendo a ciascun membro del line-up l’opportunità di cimentarsi in una dimensione fluida e impressionistica, tra materia e anti-materia, ma soprattutto con l’idea di trasformare la volgare materia sonora in una sorta di liquefatta spiritualità cosmica di tipo universale. In questo ambiente ribollente di nuove istanze, Henderson trovò il proprio mantra per l’ennesima volta, uscendo dai i limiti di una formazione tradizionale, essenzialmente legata al bop in tutte sue forme espressive. Se c’era riuscito Coltrane, perché non avrebbe dovuto riuscirci Joe Henderson? In fondo, i quadri di riferimento del sassofonista erano stati principalmente Sonny Rollins e lo stesso Trane. Per via del suo background, sin da primi anni ’60, Henderson appariva legato indissolubilmente al tipico sound della Blue Note. Con il passare del tempo, però, il sassofonista aveva cominciato a esplorare nuovi contesti sonori, sebbene non avesse osato mai così tanto. «The Elements» fu un unicum per Henderson in qualità di band-leader. Arrangiamenti simili sono riscontrabili in dischi come «Journey in Satchidananda» e «Ptah, the El Daoud» dei Alice Coltrane o altri lavori di Pharoah Sanders, piuttosto che fra le coordinate tracciate dall’ultimo Trane. Non a caso, «The Elements» venne concepito come un’opera basata su quattro lunghe suite intitolate «Fire», «Air», «Water» e «Earth». La musica è un assemblaggio inusuale di situazioni magmatiche, ricco di aspri innesti funkified, specie da parte di Henderson, con una forte enfasi sui sonorità e le scale accordali del Nord Africa, del Medio Oriente e dell’India. Il lavoro di in studio aggiunse ulteriori sfumature timbriche, che potrebbero perfino sollevare qualche perplessità. Il sassofono di Henderson fu ritrattato e ritoccato in fase di post-produzione, tanto che risultano evidenti alcune giunzioni, ingiunzioni e sovraincisioni, le quali non inficiano l’idea complessiva del concept. Il valore e l’efficacia di «The Elements» vanno identificati nell’idea di collegialità che diventa un’unica dichiarazione per tutti: nel disco non ci sono assoli sconvolgenti, non ci sono star di turno o primedonne, il processo creativo nasce per induzione, da un afflato collettivo, dove «gli elementi» sono disposti in maniera orizzontale e ravvivati da un groove ricco di percussioni o da qualche lieve sfumatura afro-latina, così come accade in «Fire», piccola maratona sonora di oltre undici minuti, in cui il sax di Henderson, il quale urla a metà strada tra Albert Ayler e Gato Barbieri, è avvolto e allungato dall’uso di un delay, che gli consente una spazialità volatile e sospesa, puntualmente dilatata dall’onirico arpeggio di Alice, mentre il trillo del violino di White richiama tutti all’ordine cosmico.

In «Air», la signora Coltrane passa al pianoforte, sviluppando una progressione che si rigonfia lentamente, mentre i sodali le si addensano attorno, salendo e scendendo senza contare gli scalini, ma soprattutto facendosi ispirare più dal colore del timbro e dal mood espressivo che non dalla struttura armonica del tema. Henderson è bravissimo nel suo travestimento da perfetto emulo dell’ultimo Trane dimenandosi verticalmente con voce roca, infiammata e distorta. Anche in «Water» è sempre Alice ad intessere una tela armonica a maglie larghe su cui i sodali lanciano schizzi di colore, mentre Henderson si dimena attraverso squittenti e claxonati assoli, intermittenti e frantumati che producono un sentore di fachirismo indiano da incantatore di serpenti. L’aggiunta dei correttivi in fase di post-produzione determina una situazione di musica ambient ante-litteram, anticipando le intuizioni e i dettami di Jon Hassell che, con l’album «Vernal Equinox» del 1977, avrebbe confermato la concezione della suddetta «quarta via». Per chiudere, «Earth», quasi una summa dei costrutti precedenti, ma con un’addizionale funk-soul che, implementata dal groove basso/batteria, aggiunge al disco un sapore di perpetua attualità. Ognuna delle quattro composizioni ha un suo particolare humus accrescitivo ed un modus operandi strumentale ed esecutivo che, per contro, si lega perfettamente a tutto il resto, non per impostazione ed imposizione ritmico-armonica ma per affinità elettiva. «The Elements» non è un disco che va giù facilmente come un bicchiere d’acqua: si richiedono particolari enzimi digestivi. I melomani e gli stornellatori, gli amanti delle purghe cameristiche o quanti si aspettano di trovarci il classico head-solo-head e le strutture del tipo ABBA potrebbero rimanerne delusi.

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