// di Francesco Cataldo Verrina //

Il tratto terminale della caotica e tormentata esistenza dei Art Pepper costituisce il momento di massima espressione artistica del contraltista di Gardena. Dopo lunghi anni di carcere per uso e spaccio di stupefacenti, e relativa riabilitazione, il fato non gli concesse tanto da vivere. Furono poco meno di sette anni, ma alquanto intensi e caratterizzati da una frenetica attività live con esibizioni in lungo e largo in ogni parte del mondo, tra America, Europa e Sol Levante, in cui il sassofonista californiano perfezionerà una nuova forma musicale – distante da quella degli esordi – e di cui restano una quarantina di album, in massima parte registrati dal vivo. Nel 1981, Art Pepper toccò il suolo italico per alcune date nel nostro paese. Così, la sera del 6 luglio di una calda estate, il sassofonista fu il primo attore in un concerto memorabile al Genova Jazz Festival. Il materiale registrato per l’occasione, oggi costituisce un documento sonoro di importanza storica e di portata universale. Poco meno di un anno più tardi Art Pepper mori, a soli 56 anni, il 15 giugno del 1982.

L’ultimo album ripreso dal vivo , «Last Concert 1982, Final Art» – fissato su nastro dai Nipponici come riportato dalle cronache – per motivi spazio-temporali può fare il paio con «Art Of Art», questo il titolo del vinile di pregio ricavato da nastro originale, recuperato e restaurato dalla Red Records ed appena immesso sul mercato a tiratura limitata. L’operazione del produttore Marco Pennisi rende giustizia all’opera di Pepper, riscattandola da una rudimentale e maldestra registrazione di alcuni estratti di suddetto live pubblicati anni addietro in CD solo per il mercato giapponese. Per via delle sue elevate peculiarità sonore, indirizzate anche al segmento audiofilo, nonché per l’impeccabile veste grafica, le foto, il tipo di impaginazione e la disposizione dei contenuti, «Art Of Art» può essere considerato un inedito a tutti gli effetti. In verità lo è, sia tecnicamente che formalmente. Fuori da ogni retorica, la pubblicazione dell’etichetta rossa assume una doppia valenza, almeno per noi Italiani: un disco postumo di Art Pepper, di tale caratura artistica e qualità tecnico-acustica, pubblicato nel nostro paese, è motivo di orgoglio, in risposta allo sciovinismo tipico degli Americani che, per contro, tendono a sottovalutare le discografie di molti artisti, quando realizzate in Europa; in seconda istanza, «Art Of Art» è uno di quei punti di svolta in cui Pepper esprime e completa sua innata e sempre agognata blackness. Il sassofonista di Gardena raggiungeva sempre il climax esecutivo quando di esibiva con musicisti di colore, con i quali si sentiva in perfetta sintonia, poiché cresciuto musicalmente, e non solo, in mezzo agli afro-americani. Nello specifico la cellula ritmica costituita George Cables al pianoforte, David Williams al contrabbasso e Carl Burnett alla batteria, può essere considerata come l’evoluzione di una ricerca costante di «un altro sé stesso» dall’essere «bianco», o la chiusura di un cerchio in relazione a quello che fu il suo primo «avanzamento» discografico in termini d’importanza planetaria, ossia «Meets The Rhythm Section» del 1957, disco realizzato con la sessione ritmica «nera» più quotata dell’epoca (al seguito di Miles Davis): Red Garland al piano, Paul Chambers al basso e Philly Joe Jones alla batteria. Un evento che segno per sempre la personalità di Pepper, il quale uscito dallo studio della Contemporary non credeva alle sue orecchie. Tornato a casa, raccontò alla moglie, che lo aveva spinto a partecipare alla sessione, quanto accaduto con l’entusiasmo di un bambino: «Erano tutti neri, di solito suonano con Miles, ma hanno suonato con me da pari, mi hanno fatto anche i complimenti!»

Il fatto di percepire Pepper alla stregua di un «nero-bianco inter pares», potrebbe essere la chiave di lettura più efficace per spalancare la cassaforte di «Art Of Art», la quale si apre con «Blues For Blanche», un componimento firmato da Pepper e pressofuso su una struttura armonica sinuosa e felina. Blanche non era una donna, come si potrebbe pensare, ma una gattina che il sassofonista amava molto. Posizionato come opener dell’album, il brano è un distillato di blues espanso su un range di oltre dodici minuti, in cui Art esprime molti aspetti del suo modo di intendere il jazz nell’anno di grazia 1981, forte di una retroguardia rimica estremamente assertiva e sinergica. L’inizio è quasi ironico, un po’ accidioso, vigile e sornione come il movimento di una gatta, con un Pepper che tira fuori dal mantice brevi e cadenzati riff, quasi ostinati che ricordano i passi di un felino che si guarda intorno con circospezione. Progressivamente, però, il gatto cambia pelle e dimostra di avere nove vite: per un tratto il contraltista agisce in un regime di semilibertà jazzistica, emanando un suono tagliente e abrasivo – pur non perdendo mai la quadratura melodica – che ne fa emergere il background di apprendimento coltraniano durante gli anni del carcere. Ovviamente, non c’è ricalco e neppure gratuita imitazione. Nella seconda parte il sassofonista concede parecchio spazio ai sodali per lunghi assoli, nei quali George Cables, a tratti, tradisce il suo imprinting post-monkish. «The Trip» è il secondo lungo brano che completa la prima facciata del disco. Proveniente dall’omonimo album del 1976, costituisce uno dei momenti di massima espressione creativa dei tutta la carriera di Pepper, il quale, in quei giorni, mostrava un certo interesse per le avanguardie o, comunque, per sonorità non propriamente convenzionali e prevedibili, pur non perdendo mai di vista l’assetto tematico e la fruibilità dei brani. In questa versione dal vivo, il «trip» assume connotati vagamente più metafisici ed esoterici: il tipico movimento arabescato diventa più insistente e modalizzato, mente la voce del sax si esprime con «parole» di sofferenza che si tramutano in una poesia sublime, complice il piano di Cables che, usando un martelletto monkiano, inchioda gli accordi su una tavolozza multistrato, sulla quale si avvitano perfettamente il basso di Williams e il kit percussivo di Burnett. Di viaggi nell’iperspazio più recondito dell’ignoto, Pepper ne aveva fatti tanti, per inquietudine caratteriale e per uso di narcotici, ma qui il tutto è armonicamente sintetizzato e sublimato da un line-up stellare, quanto mai complice e adatto all’uso.

La B-side si apre con «For Freddie», ancora farina del sacco di Pepper, autore ed interprete di se stesso in maniera sopraffina, tra tormenti accordali ed eruzioni di vita. Qui, alle prese con un gioiellino di hard-swing dai contrafforti ironici, deformato e ammorbato da un desiderio di fuga, con la complicità dei sodali e un interplay in botta e risposta con il piano che a volte sembra avvicinarlo ad una dimensione più tradizionale dello scibile sonoro, dal quale Art si divincola abilmente, mentre basso e batteria restano sempre allo stato di veglia a causa dei repentini cambi di passo e di mood. Del resto Freddie era un cuoco, quindi la pietanza sonora si sostanzia attraverso ingredienti molteplici. Senza togliere nulla al resto del cordata «For Freddie» è un’autentica vetrina espositiva per l’arte pianistica di un George Cables in vena di follie. A seguire «Over The Raimbow», dilatata sulla distanza di oltre quattordici minuti, unico standard dell’album che Pepper amava riproporre alla sua maniera, riversando l’anima nello strumento ed ampliandone lo spettro evocativo, impreziosito da una lunga perifrasi improvvisativa, ricca di spunti melodici, poetica, liricità e sofferenza drammaturgica, che non trova eguali nell’ambito della storia del jazz moderno. Nello specifico il piano di Cables diventa un alleato sopraffino, anche quando si prodiga nel suo excursus personale con un tempi e dinamiche non previste, seguito da un basso pizzicato che funge da rampa di lancio per lo scorticato e straziante ruggito dell’antieroe di Gardena in solitaria. In chiusura, «Landscape», altra composizione pepperiana, che il contraltista amava proporre spesso in quelle tournée, poiché consentiva, per via della struttura accordale e dell’impalcatura melodica, ampi spazi di manovra anche ai sodali favorendo ripetuti cambiamenti umorali e piacevoli sbalzi di groove. Nello specifico, c’è un finale manualistico, con Pepper che dialoga dapprima con la batteria e poi con il piano, il quale diventa più percussivo del basso che ne imita le gesta. Un album come «Art Of Art» è una manna dal cielo per lo stantio mercato internazionale del jazz, spesso disperso nei liquami contaminati o in astruse complicazioni geneticamente connaturate nel jazz contemporaneo che stenta a trovare una dimensione che non sia, sovente, quella dell’insipienza.

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