A suo vantaggio depongono anche una padronanza dell’idioma inglese, non adattivo ma sorgivo, ed una qualità vocale non comune irrorata da una naturale blackness che ne definisce immediatamente i tratti distintivi.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Il canto nel jazz ha avuto una sua predominanza, almeno una sua ben precisa fisionomia, fino all’avvento del bebop in cui sono mutate le regole d’ingaggio, le quali sembravano a tutto vantaggio di un certo maschilismo competitivo, mentre molte jazz-singer si trasformarono in sopraffine intrattenitrici operando, a vari livelli, sulla sintassi jazzistica. Cantare il jazz rimane a tutt’oggi un affare quasi esclusivamente femminile, per quanto non costituiva e non costituisca un deminutio capitis. In genere, le vocalist jazz, sono ottime compositrici, sanno scrivere i testi, a differenza dei colleghi uomini che sono quasi sempre presi dal tecnicismo e dal virtuosismo strumentale, a meno che il maschio-alfa della specie jazz-sapiens non decida di proporsi come crooner. Nell’ambito dell’idioma contemporaneo, «cantare» equivale spesso a molte cose che non sono propriamente jazz o chi vi girano intorno, al massimo lo lambiscono di striscio. Fenomeni inclusivi, dispersivi e contaminanti hanno allontanato il jazz vocale degli stilemi originari. Per contro, Linda Gambino appena arrivata su mercato con il suo album d’esordio «Unexpected», edito da Filibusta Records, sembra aver metabolizzato le voci del passato, mantenendosi legata, attraverso un saldo e nutritivo cordone ombelicale, al lineage delle storiche interpreti della musica afro-americana: Ella Fitzgerald, Sara Vaughan e Betty Carter.

Il debutto discografico della Gambino, cosi chiaro ed eloquente nella sua forma estetica ed esecutiva, la pone immediatamente su un piano differente rispetto al dilagante «metodo canterino» delle interpreti dell’era di Internet a quadrato, basato sovente su ballate intimiste, testi cerebrotici, ricerca di spunti etnici, elementi di afrologia surrogata, latinismi vaganti e sperimentalismi legati all’elettronica o al minimalismo strumentale. Il background e l’imprinting americano sono un altro valore aggiunto al modello espositivo di Linda, la quale ha trascorso parte della sua vita, sin dall’infanzia in USA, con studi regolari ed approfonditi al Berklee College of Music di Boston, dove ha assorbito, gli umori, i sentori e l’humus canoro tipico della soul-singer e delle vocalist di colore. A suo vantaggio depongono anche una padronanza dell’idioma inglese, non adattivo ma sorgivo, ed una qualità vocale non comune irrorata da una naturale blackness che ne definisce immediatamente i tratti distintivi. Decisivo il suo incontro con il chitarrista Andrea Zacchia, che saputo cogliere al meglio le idee della cantante e canalizzarle in un flusso melodico accattivante e pregno di lirismo. Linda e Andrea sono sostenuti da Giordano Panizza al contrabbasso e Maurizio De Angelis alla batteria, i quali hanno apportato al progetto un notevole contributo di esperienza.

L’album si sostanzia attraverso tre motivi originali firmati dalla titolare dell’impresa e quattro standard prelevati dallo scrigno dalla tradizione americana, i quali mettono in luce le capacità e la flessibilità della Gambino nel percorrere in lungo e largo epoche e stilemi differenti. La title-track, nomen omen ossia, «Inaspettato», nasce da pochi accordi di una composizione di Linda magnificati dal potere quasi taumaturgico del chitarrista Zacchia, che ha saputo valorizzare ed esaltare tutte le melodie, vecchie e nuove contenute nell’album, dando risalto ed espressività alla voce della cantante-leader. Scorrendo progressivamente le varie tracce si viene catapultati in un habitat musicale non consueto, apparentemente retrò e d’altri tempi, ma in fondo è il jazz come deve e dovrebbe essere cantato, mentre alla mente affiorano le immagini di un sulfureo locale newyorkese o bostoniano, sulle cui pareti risuonano riverberi di profondo blues e di swing ondeggiante incatenati ad un canto «scuro» e assertivo. Basta ascoltare la riuscitissima e personalissima versione di «My Favorite Things», intorno alla quale la sezione d’accompagnamento imbastisce una nuova veste ritmica in quattro quarti, restituendola al mondo in maniere rinverdita e reinventata. Molto convincenti le composizioni a firma Gambino/Zacchia, ossia «Let’s Take Whatever Comes Instead» e «Your Hands», in cui Linda espelle tutta la sua «negritudine», sulla scorta di due ballate sanguinanti e soulful. Intrigante risulta la revisione di «Honeysuckle» di Fats Waller; mentre declinata con piglio quasi divertito, su un piacevole terzinato con tanto di scat, la celebre «Taking a Change On Love». «Unexpected» di Linda Gambino è un disco che scorre leggiadro ed immediato sul quel filo sottile che lega il jazz al loisir: un invito all’ottimismo e alla gioia di vivere.

Linda Gambino

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