Prima di immergerci nella descrizione dell’album, è importante capire cosa sia una (o uno) steel drums, letteralmente tamburo d’acciaio. Trattasi di uno strumento a percussione della famiglia dei gong sviluppato verso al fine dell’800 ed originario di Tobago e Trinidad. Conosciuto spesso come steelplan (mentre coloro che lo suonano vengono chiamati pannisti), tale strumento sviluppa un gamma esecutiva compresa tra G1 e F6 (le note naturali in italiano corrispondono al Sol e al Fa). La superficie del tamburo metallico raggiunge altezze diverse a seconda del punto in cui il mallet vada a colpire. Oggi esistono steel drums elettroniche con i vari punti della superficie contrassegnati da numeri, ognuno dei quali corrisponde a una certa tonalità. Lo steel drums fu usato sia da Jarrett che da Charlie Haden e Paul Motian durante la registrazione di «The Mourning Of A Star» del 1971, un album che divide a livello di giudizio – come del resto buona parte delle produzione jarrettiana – i suoi sostenitori o i suoi detrattori. Sappiamo bene che l’eclettico Jarrett ha sempre lavorato su vari livelli emotivi: al massimo della sua potenza come pianista puro, dimostrando di essere una voce autorevole in qualunque contesto egli abbia operato; altre volte, come in questo caso, in maniera più frastagliata, quasi un tentativo di fare sperimentazione in corso d’opera e con l’idea di usare più strumenti.

Secondo alcuni musicologi, penso a Gianni Morelenbaum Gualberto, il quale sostiene che alle prese con il sax o il flauto, rispetto al piano con il quale esprimeva tutta la sua imponenza, Jarrett fosse un buon dilettante. Va detto che il pianoforte, pressoché dominante, riusciva a compensare talune carenze impercettibili per la massa, quindi nell’economia complessiva di un progetto l’uso di altri strumenti da parte del pianista non risulta mai così deleterio. Soprattutto un album, spesso bistrattato come «The Mourning Of A Star», pur non essendo il climax dell’opera jarrettiana, andrebbe inquadrato ed analizzato sotto una luce diversa e da una differente prospettiva. Keith aveva ventisei anni, di cui almeno cinque passati al servizio di altri musicisti più anziani ed affermati, nello specifico Charles Lloyd e Miles Davis, di cui subiva ancora l’influenza; soprattutto nei primi dischi, in qualità di band-leader, quelli pubblicati dalla Vortex e nello specifico dall’Atlantic, il suo stile non è ancora ben definito tradendo un accenno di svolta boppistica nella frase melodica, un’esuberante fioritura, sovente ridondante per risolvere l’armonia e corse fluide e scivolose che lanciano l’improvvisazione. In qualche modo, però, il suono del pianoforte, pur leggermente in fase di definizione, appare inconfondibilmente suo. Si consideri inoltre che i precedenti quattro album, usciti fra il 1967 ed il 1971, non avevano chiarito in maniera limpida e distinta ciò che sarebbe stato il Keith Jarrett del futuro. È fondamentale fare attenzione al titolo «The Mourning Of A Star» che significa letteralmente «Il lutto di una stella», forse una stella cadente, ma è invece la nascita di una nuova fase nella carriera di Jarrett, quindi come titolo sarebbe stato più appropriato «The Morning Of A Star», come dire l’alba di una nuova stella.

Paradossalmente l’importanza storica di «The Mourning Of A Star» consiste nell’essere uno spartiacque nella carriera del pianista ed un preludio al quartetto americano con l’aggiunta del sassofono di Dewey Redman. Non a caso, nell’album in oggetto risalta il desiderio di un strumento a fiato, compensato dai vari interventi dello stesso Jarrett. Lo spirito di esplorazione di «The Mourning Of a Star» è piuttosto evidente con episodi di trance collettiva – dove tutti suonano la steel drums – diventati in seguito dei punti fermi dal vivo; nello specifico la beve «Everything That Laments» o la lunghissima title-track, dotate di melodie in grado di diventare un trampolino di lancio per le improvvisazioni di gruppo con Jarrett al sax soprano o al pianoforte, il tutto intervallato da raffiche di groove rocciosi e sonorità country-rock come contrassegno saliente. Al piano lo stile di Keith, per quanto personale, rimanda inevitabilmente a Bill Evans specie in «Sympathy» o al fraseggio armonicamente libero di Paul Bley in «Trust». Jarrett è già proiettato negli anni settanta, con ambizioni free-form e «Follow The Crooked Path» ne è una dimostrazione lampante, senza tralasciare il contaminante apporto di sonorità rock con la ripresa di «All I Want» di Joni Mitchell, che la cantautrice aveva appena pubblicato nell’album «Blue» dello stesso anno. L’unico neo è forse costituito da componimenti molto brevi, buone idee che sembrerebbero incomplete e non sviluppate; per contro i brani più estesi, quali «Follow The Crooked Path», «Trust», «Traces Of You» e la title-track, si collocano felicemente tra le più riuscite intuizioni musicali di quel periodo.

Il costrutto complessivo, che oltrepassa la formula del piano trio, beneficia di riff orecchiabili, melodie allettanti, anche se a tratti smielate, in cui il pianista-leader si destreggia con le sue lunghe e disinvolte progressioni di note che sembrano zampillare dalla melodia; Charlie Haden, da par suo, suona il basso con una metodo decisamente avant-garde, come se tutte le note schizzassero al contrario, mentre Jarrett e Paul Motion fanno sferragliare una ridda di percussioni metalliche senza lasciare aria ferma; dall’altro canto Jarrett al sax soprano apporta un’abrasione mancante al suo pianoforte, mentre il Nostro soffia nel flauto ricreando un atmosfera alla Charles Lloyd; la batteria di Motion è costantemente partecipativa e non convenzionale. Ottima risulta la produzione di George Avakian, notevole la parte grafica curata da Ira Friedlander, uno specialista nell’art-cover dei dischi americani degli anni Settanta, in sintonia con spirito dei tempi. Così diventa un valore aggiunto perfino la scelta di riportare sul retro dell’album una poesia, «Natural Disasters», firmata da un fantomatico Terry Strokes, personaggio forse inventato: magari, la poesia era stata scritta dallo stesso Jarrett. Dopo un ascolto attento, ci si avvede quanto «The Mourning Of A Star», sessione proveniente dagli Altantic Studios di New York, risulti storicamente determinante per l’evoluzione del genio jarrettiano, se non altro un promemoria sull’importanza e la validità dei line-up americani, prima che il pianista cedesse alle lusinghe del Mangiafuoco germanico.

Keith Jarrett Trio

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *