// di Francesco Cataldo Verrina //

Definito da Michael Brecker «il miglior tenorista del mondo», Jerry Bergonzi è un sassofonista focoso, passionale, istintivo, a volte invasato dallo spirito del Coltrane più irrequieto, anche se il suo jazz offre poco alla componente mistica e trascendentale. Di gavetta Jerry ne ha fatta tanta, ed ama parlare dei suoi difficili esordi: «Il mio primo loft era sulla 6th Ave, tra la 27esima e la 28esima. Dividevo l’affitto con Art Barron, che per la maggior parte del tempo era in viaggio con Duke Ellington. L’affitto era di 150 dollari al mese, che dividevamo. Si poteva suonare 24 ore al giorno liberamente. Bill Washer viveva al piano sopra di noi e aveva una doccia che funzionava». Così il sassofonista si raccontava in un’intervista: «Non avevamo una cucina, ma mangiavamo fuori ogni giorno in ristoranti economici o compravamo cibo che non andava a male. In inverno mettevo il cibo sul davanzale della finestra, perché non avevamo un frigorifero. Dopo sei mesi mi trasferii in un altro loft sulla 27esima strada ovest, tra la sesta e la settima Avenue. L’affitto era di 250 dollari al mese, ma l’arredamento era fantastico. Un bagno, una doccia, una piastra elettrica e un mini-frigo. Al secondo piano viveva un meccanico, Martin, e al primo Rick Kilburn. Facevamo sessioni praticamente ogni giorno. Comprai un set di tamburi Round Badge Gretch del 1962, piatti e tutto l’occorrente per 125 dollari».

Piano piano le cose iniziarono a cambiare: «In quel periodo venivano a suonare da me Steve Grossman, Greg Herbert, Stele Slagle, Joe Lovano, Billy Drews, Paul Moen, Eric Turkell, Mike Brecker, Bob Berg, Dave Liebman, Bob Mintzer e molti altri. Invitavo una persona e questa lo diceva a un’altra che lo diceva a un’altra ancora, così si arrivava a cinque sassofonisti, un bassista e un batterista. A volte suonavo la batteria». Lo scambio que musicisti questa caratura fu per Bergonzi estremamente formativo: «Brecker aveva il suo loft sulla 17esima strada e a volte anche lui suonava la batteria. Ricordo che mi esercitavo con Mike Brecker quando lui suonava la batteria e io il tenore o viceversa. Chip White aveva un loft sotto quello di Mike e lo sentivamo sempre esercitarsi con il vibrafono, anche se la batteria era il suo strumento principale. Nelle sessioni potevamo provare ogni genere di cose con il feedback dei nostri compagni: un’esperienza di apprendimento straordinaria». La musica di Bergonzi è lava incandescente, mentre le sue ballate sono spesso una pausa tra un impeto ed un altro, intagliate nella roccia con forza espressiva di Sonny Rollins: la perforante versione di «Theme For Ernie» ne è una testimonianza tangibile.

«On Red» è un album tutto made in Italy, registrato sul suolo italico con musicisti locali e che del jazz italiano di quell’ultimo scorcio di anni Ottanta respira l’aria salubre e frizzante a pieni polmoni. Il disco racchiude le molte doti espressive e stilistiche di Jerry Bergonzi, in uno dei momenti più esaltanti della sua carriera, assecondato dall’intraprendente Red Records, nella cui fucina creativa, in quegli anni, transitarono alcuni dei migliori sassofonisti di una certa generazione, quali Bobby Watson, Hector Costita Bisignani, Steve Grossman e Bob Berg. I trascorsi di Jerry Bergonzi raccontano di un musicista in grado di modificare l’assetto sonoro di un gruppo anche in qualità di sideman; il suo esordio al seguito di Dave Brubeck negli anni ’70, in sostituzione di Paul Desmond, portò una ventata di novità e di energia nella band del pianista, divenendo una sorta di antitesi rispetto al suo predecessore. L’album si apre proprio con un tributo a Brubeck, dove l’interpretazione più ruggente ed aggressiva di «In Your Own Sweet Way» da parte del sassofonista di Boston riporta a nuova vita una ballata dalla palpebra calante, che assume quasi i tratti dell’inedito. Jerry Bergonzi al sax tenore si avvale di un’affiatata sezione ritmica: Salvatore Bonafede al piano, Dodo Goya al basso, autore di «Dodo’s Waltz» uno degli originali presenti nell’album e Salvatore Tranchini alla batteria.

A prescindere da repertorio, Bergonzi è sempre arrembante e roccioso, a volte tagliente, in cui è possibile rinvenire anche qualche traccia di Wayne Shorter, ma soprattutto sostenuto da un’ottima retrovia che non lo perde mai vista, mentre la tensione sale con «Pannonica» di Thelonius Monk ed il pathos investe in pieno il quadro emotivo dell’ascoltatore con «I’m My Everything» di Harry Warren. Tre sono i componimenti a firma Bergonzi: «Surrender» un piccolo gioiello di post-bop, mutuato sui cambiamenti di accordi del classico «Softly, as in a Morning Sunrise» di Abbey Lincoln, molto amato da Rollins, Coltrane e Davis. «Si, Senora», è una ballata latina mid-range ben costruita ed a facile presa, che da sola vale il prezzo della corsa. «I Want To Talk About You» si caratterizza come una perfetta progressione post-bob dal tono misurato, ma dai forti connotati soulful. Registrato allo studio Barigozzi di Milano nel maggio del 1988, «On Red» è un album dai toni cangianti e dai colori intensi, che trova nella sua natura mutevole il vero punto di forza.

Jerry Bergonzi

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