La temperatura si alza, mentre dal sax di Rollins, che corre per tutta la prateria come un un mustang, fuoriescono nitriti, nitrati, qualche strombazzata alla Ornette e latrati alla Ayler. Era quello un periodo in cui Rollins aveva sciolto i freni inibitori suonando in lunghezza e in larghezza, in scioltezza e in barba ai dettami classici del bebop.

// di Francesco Cataldo Verrina //

A mio avviso, i bootleg sono una manna dal cielo. Per quanto aborriti dagli amanti dell’alta fedeltà e del suono esoterico, questi oggetti sicuramente imprecisi e privi di note di copertina, furbescamente omesse, al fine di non dare troppi punti di riferimento sugli autori del «misfatto», offrono una quadro unico dell’attività concertistica di molti artisti. L’ufficialità di una ripresa dal vivo mette i musicisti in allarme e in una condizione di attesa, mentre il loro atteggiamento è condizionato dall’idea che quella registrazione finirà in un supporto fono-meccanico ad imperitura memoria. Sovente, durante le registrazioni live viene a mancare la spontaneità e quella sorgiva forza istintiva che ogni esecutore esprime naturalmente sul palco, in cui egli si abbandona al mood del momento, lasciando a casa ogni calcolo ed ogni sovrastruttura mentale. I bootleg nel jazz, a prescindere dallo stile perseguito, hanno sempre l’energia dirompente ed impattante del free, almeno ne posseggono la ruvidezza, l’immediatezza e la voglia di divincolarsi da taluni schemi, sovente, restrittivi e limitanti. Nello specifico, il Colosso suona piuttosto free form già di suo: era quello un periodo in cui Rollins aveva sciolto i freni inibitori suonando in lunghezza e in larghezza, in scioltezza e in barba ai dettami classici del bebop.

Parliamo di un bootleg a tutti gli effetti di legge. Tale affermazione diventa un paradosso di illegalità conclamata se si pensa che nulla sia dato di sapere su tale misteriosa registrazione, che mai lo stesso Sonny Rollins abbia o avrebbe autorizzato, né la casa discografica o la sua produzione. Per quanto la qualità del suono non priva di qualche disturbo ambientale – siamo a livello di cassettina stereosette – non sembrerebbe proprio da buttare: le inesattezze sono notevoli, non certamente dal punto di vista sonoro, però. Tanto per cominciare, il titolo è «Soneymoon», una specie di non sense, di abuso o di un improbabile errore di battitura: la composizione di Rollins, cui il titolo tronco si sarebbe ispirato, è la famosa «Sonnymoon for Two»; non sono indicate precise date di registrazione o località, anche se le esecuzioni, con buona probabilità, provengono da un tour europeo del Colosso. Il pianista Kenny Drew viene erroneamente accreditato come percussionista, Jymie Merritt segnalato come Jimmy Meritt e Billy Higgins trasformato in Bill Higgins; infine per gli artefici del disco pirata Don Cherry suonerebbe la tromba. Ciononostante, la registrazione possiede un suo fascino ed è piuttosto coinvolgente, se non altro considerando le forze in campo: con un po’ di sana complicità si ha l’impressione di partecipare a qualcosa di proibito. La stessa sensazione che provavamo da ragazzi quando si andava ai concerti con un piccolo registratore nascosto in tasca. Tempi in cui non era facile godere di tanta musica a buon mercato. Quindi il giorno dopo, tra rumori vari, si godeva del frutto di quel piccolo e veniale illecito.

Rebus sic stantibus, riusciamo a godere anche di una falsa partenza in «Without a Song», che rende probabilmente tutti i nostri idoli più normali, facendoli precipitare, per qualche istante, al livello del mare. Cherry, coperto dal frastuono, è appena udibile ma c’è, almeno per quanti (come noi) hanno le capacità di discernimento acuite, avendo avuto una gioventù segnata dal low-fi, di cui si sono riscattati in età più matura. In sintesi, Cherry resta molto indietro nel mix, così come il bassista Henry Grimes, dal canto suo Higgins è meno elegante e metronomico del solido. Per contro, appare più ruvido e reattivo. E se tutto ciò, che alle orecchie educate degli scolaretti o degli ascoltatori del mainstream liofilizzato e ben confezionato appare come un baccano irrazionale al limite del baccanale, fosse voluto? Non tutto dipende dal bootleg, ma molto è dovuto al fatto che l’imprecisata band capeggiata da Rollins stia suonando molto free, attraverso un ipermodale tensioattivo e spigoloso. Il sax tenore di Rollins risulta tagliente e abrasivo, talvolta poco ligio al suo stile quadrato e regolare, in particolare sul classico «On Green Dolphin Street», che assume un aspetto trasandato ed anarcoide, chiedendo asilo politico ad una terra abitata da contestatori del sistema ritmico-armonico, dove la cornetta ricorda il diabolico trillo di Paganini, Man mano che si procede nell’ascolto il godimento è tanto, quasi come aver scoperto un impalpabile tipo di jazz proveniente da una galassia aliena: un critico d’altri tempi avrebbe potuto liquidare la pratica con sussiego e scrivere: ma questi ci fanno o ci sono? O meglio c’erano. Fortunatamente sono esistiti anche in questa dimensione in cui «Solitude» sembra emergere da un brodo primordiale. Sul 33 giri in vinile da 180 grammi, è proprio la title-track, «Soneymoon» a dominare la scena e a coprire un’intera facciata sulla distanza di quasi venticinque minuti, in cui l’originale «Sonnymoon for Two» assume forme molteplici e tinte atipiche, la temperatura si alza, mentre dal sax di Rollins, che corre per tutta la prateria come un un mustang, fuoriescono nitriti, nitrati e qualche strombazzata alla Ornette e qualche latrato alla Ayler. Sul finale si ode qualche trillo di cornetta ed un insistente basso ad arco. L’approccio del Colosso ricorda vagamente il suo modus agendi in «Est Broadway Run Down».

Non esistono delle differenze quantitative tra il doppio vinile e il CD, i quali contengono sette brani, dove i due eseguiti in quintetto con Drew, Milt Jackson, Art Blakey e Percy Heath sembrano più vicini alla sintassi tradizionale L’assolo introduttivo di Heath su «Sonny’s Blues» è piuttosto canonico, mentre «Oleo» muta in una cuspide accavallata tra materia e antimateria, così come «Lover», a cui spetta l’atto conclusivo con Rollins saldamente al volante, diventa una sorta di freedom now and forever spalmato su un aspro eloquio di quasi quindici minuti, con Roach e Merritt che assimilano rapidamente i dettami del sinergico trio che il Colosso aveva precedentemente guidato con di Elvin Jones e Wilbur Ware al suo fianco. «Soneymoon» non è certamente l’anello che regge la lunga catena discografica di Sonny Rollins, ma non lasciatevi ingannare dal bootleg: è solo un concentrato di caos organizzato post-bop ad ali spiegate, tra modale a lievitazione naturale e free jazz a controllo remoto.

Sonny Rollins

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