// di Guido Michelone //

Nicholas Anthony Salvatore, nel 2023 ottantenne, nato nel quartiere di Brooklyn, a New York, da genitori di origini italiane è uno storico americano che è professore di relazioni industriali e di lavoro e professore di studi americani alla prestigiosa Cornell University; laureatosi all’Hunter College in pieno 1968, consegue poi un MA e un dottorato di ricerca a Berkeley, presso l’Università della California, dove studiato con Leon F. Litwack. Questa intervista risale al 2001 ed è parzialmente inedita (mai pubblicata ella sua interezza), ancor oggi attuale per come impostare un a ricerca storia sul Novecento americano alla luce dei contesti artistici, in cui il jazz e in genere la black music occupano ruoli fondamentali.

D Nick, vado dritto al punto: quali sono i rapporti tra la musica americana e lo studio della storia statunitense?

R Sono molto stretti: ad esempio è impossibile studiare le migrazioni verso gli Stati Uniti dall’Europa, dall’Africa, dall’Asia indipendentemente dalle tradizioni musicali di questi popoli e da come i loro canti e le loro danze siano cambiati a contatto con il Nuovo Mondo. Questo dovrebbe valere ad esempio oggi per l’Italia per comprendere le culture dei popoli del Nord Africa che arrivano a Milano, Roma e Torino, portando con sé tutta una complessità di espressioni musicali che sono anche culturali, che vanno seguite con attenzione per comprendere il fenomeno attuale. della migrazione.

D Gli studenti americani sono interessati a conoscere il rapporto tra musica e storia?

R Molti giovani prendono questo approccio come una scusa per studiare la loro musica, quella contemporanea. Tuttavia questo insegnamento permette, all’interno di una classe, dove sono presenti molte divisioni etniche, di insegnare un tipo di storia che non è sempre facile da raccontare e da accettare. Questo nuovo atteggiamento di insegnamento storico fa emergere tutta una serie di avvenimenti sociali e culturali che fino a pochi anni fa, per ragioni razziste, non venivano insegnati o erano molto più difficili da trasmettere. L’anno scorso (2000) i miei studenti hanno ascoltato quattro canti di protesta eseguiti nelle proteste degli anni Sessanta e poi gli stessi brani in versione gospel eseguiti durante le funzioni religiose: e tutti hanno capito il senso di vicinanza tra le due esperienze.

D Parliamo ora delle tue ricerche.

R Mi interessa la chiesa, la musica, la politica. L’esperienza religiosa, gospel e spiritual, per la comunità afroamericana non è sempre stata uno strumento per negare la politicizzazione collettiva, ma al contrario è diventata spesso protesta sociale, per costruire l’impegno delle masse. La religione afroamericana ha molte forme, alcune delle quali sono direttamente legate a questioni politiche, ma raramente riconosciute dagli ambienti accademici per lo studio della storia americana.

D Nick, uno degli intellettuali americani con una posizione simile alla tua è l’afroamericano Cornell West…

R Naturalmente sostiene anche l’importanza dei predicatori nell’elaborazione del pensiero degli afroamericani e nella formazione dell’opinione pubblica e del pubblico politico afroamericano. Fino alla fine degli anni Sessanta i predicatori [basti pensare a Martin Luther King per i cristiani e a Malcolm X per i musulmani neri] hanno avuto un ruolo chiave nella consapevolezza politica dei neri, tuttavia, con le leggi sui diritti civili tra il 1964 e il 1965, il quadro è cambiato radicalmente, perché gli afroamericani hanno aperto tutta una serie di nuove professioni e nuove esperienze; questo è il motivo per cui si è sviluppata una classe media nera che ora svolge un ruolo importante. Inoltre, da quel momento la classe media nera rivendica altri strumenti di lotta e altri luoghi di produzione culturale e di diffusione politica. Da allora non avranno più bisogno di avvicinarsi così tanto ai ministri del culto.

D E tutto ciò ha comportato una perdita di identità?

R Molti genitori afroamericani di piccola o media borghesia ancora negli anni Cinquanta preferivano che i loro figli studiassero musica classica piuttosto che jazz. Nina Simone nella sua autobiografia ricorda che quando tornò a casa dopo aver suonato jazz, suo padre e sua madre erano furiosi perché ai loro occhi si trattava di una musica dai connotati sessuali espliciti, come tale da essere assolutamente vietata.

D E parlando di jazz, tenendo presente i libri di storia sugli afroamericani negli Stati Uniti, sono ancora importanti libri come «Il popolo del blues» di Leroi Jones (alias Amiri Baraka)?

R La migliore fonte per poter studiare le connessioni tra la musica e la storia afroamericana resta tuttora questo testo del 1963, che è tuttora indispensabile per qualsiasi analisi seria, perché di enorme importanza critica. Importanti sono anche i suoi studi più recenti: Amiri ha oggi 73 anni ma possiede un’energia vitale e intellettuale incredibile. Voglio infatti aggiungere che anche romanzi come Jazz di Toni Morrison o L’uomo invisibile di Ralph Ellison contribuiscono alla conoscenza della cultura afroamericana. Sono infatti costruiti su ritmi sonori e composti allo stesso modo delle improvvisazioni musicali jazz. Soprattutto, i libri della Morrison hanno questa straordinaria capacità di riunire, su più strati narrativi, gli eventi, i simboli, la realtà quotidiana, l’iconografia afroamericana, i riferimenti biblici, una serie di lingue provenienti da fonti diverse. Alla fine, questo è un altro modo di scrivere la storia.

D Cosa c’è di eccezionale nella storia della musica afroamericana tra le recenti pubblicazioni statunitensi?

R C’è la corrispondenza tra il musicologo Albert Murray e il romanziere Raplh Ellison, fu pubblicata con il titolo Traving Twelves: erano entrambi afroamericani, compagni di classe al college, quindi le loro lettere segnano l’amicizia di una vita. Il titolo è una metafora jazzistica dell’incontro tra due sassofoni tenori, una battaglia di sax, suonata sui tasti dello strumento.

D Torniamo alla storia afroamericana. Cosa non dicono i libri ufficiali al riguardo?

R Per esempio, che i neri sono sempre stati esclusi fino agli anni Sessanta da ogni forma di miglioramento sociale: per esempio, ai tempi della grande industrializzazione era terribile lavorare nelle fabbriche siderurgiche, ma ancor peggio era esserne esclusi. I neri potevano lavorare o essere assunti solo come fattorini o addetti alle pulizie di gabinetto, perché l’apprendistato in fabbrica permetteva agli operai di trasmettere la propria esperienza di padre in figlio e anche di aumentare il proprio status sociale, e, oltretutto, di favorire la socializzazione nella stessa fabbrica tra lavoratori di diversi gruppi etnici. Quindi, in questo senso, i figli degli afroamericani erano doppiamente svantaggiati, in primo luogo perché non potevano fare questo passo avanti, in secondo luogo perché veniva loro negata la realtà della socializzazione.

D Mentre studiavi la storia afroamericana, hai anche studiato musica, ad esempio, recentemente hai scoperto che un uomo chiamato C.L. Franklin…

R La chiesa di Detroit, dove Franklin predicava, era quella che raccoglieva il maggior numero di afroamericani della classe operaia. Ti racconto un aneddoto. B.B. King aveva suonato a Detroit fino alle quattro del mattino di sabato sera, ma voleva assistere al culto di Franklin alle undici del giorno successivo perché diceva che quello che accadeva nei suoi sermoni era un’esperienza musicale straordinaria, grandiosa, incomparabile; quindi per i sermoni del ‘bluesman ‘Franklin la musicalità è stata davvero stimolante. L’interconnessione tra il mondo della musica religiosa e quello laico, quello della musica afroamericana, ha radici molto profonde. Non è un caso se Franklin, che era amico di Art Tatum, è il padre di Aretha, che di fatto ha imparato da lui tutti i trucchi del mestiere. Infatti, il primo album di Aretha Franklin contiene quattro brani individuali, registrati quando lei aveva quattordici anni, a metà degli anni Cinquanta, nella chiesa paterna, durante un periodo di culto. E anche nei successivi album gospel di Aretha, da Amazing Grace in poi, in molte canzoni riappare la sua voce paterna.

D La cultura nera ha espresso canzoni politiche in senso stretto?

R Ti faccio un esempio significativo: negli anni Quaranta c’era a Memphis un predicatore, W.H. Buster, che ha scritto gli spiritual eseguiti durante i sermoni: Ask a bit more! (Chiedi un po’ di più!). Nello slang americano significa anche fare un passo avanti nella scala sociale; e questa è una canzone diventata famosa in quel periodo, interpretata da Mahalia Jackson, la migliore cantante gospel di tutti i tempi. Quando è stato chiesto al predicatore il motivo di questo canto, ha dato due spiegazioni: da un lato per esprimere un sentimento religioso, dall’altro per fare in modo che gli afroamericani, che venivano nella sua Chiesa, ricordassero ogni giorno che avrebbero dovuto lottare per conquistare una condizione migliore, in un periodo storico in cui i neri del Sud vivevano in completa discriminazione razziale: ad esempio, non potevano usare gli autobus o frequentare i ristoranti e le scuole dei bianchi; e qualche volta era a loto vietato fare dischi per certe etichette.

D Per concludere, Nick, cosa c’è di più nel rapporto tra politica e musica nera?

R Gli esempi di canzoni potrebbero essere tanti: magari gli afroamericani non hanno avuto un Bob Dylan o un Woody Guthrie, eppure sono tante le circostanze diverse che fungono da mediazione politica. Anche il blues è stato uno strumento che ha costantemente ricordato ai suoi ascoltatori e a chi cantava che c’erano altre opportunità. Nonostante le loro parole non fossero direttamente politiche, i bluesmen continuarono a portare un messaggio politico, se non altro perché potevano dire che quella non era la vita, ma forse c’erano altre possibilità. Una delle maggiori violenze dell’odio razziale e uno dei modi peggiori in cui la segregazione razziale ha colpito gli afroamericani è stato il fatto di negare loro di ascoltare la propria voce in senso sia metaforico sia materiale; non esistevano infatti luoghi pubblici al di fuori delle chiese (e solo successivamente dei club o dei jazz club e blues club) dove si potesse cantare o suonare per gli afroamericani. Per questo motivo le chiese nere, per tutta la prima metà del Novecento, insomma, costituiscono un’esperienza fondamentale del pensiero ideologico e della comunicazione politica afroamericana.

Nick salvatore

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