// di Roberto Biasco //

Transition” è il titolo scelto per il Roma Jazz Festival 2023, svoltosi nel mese di novembre – con l’anteprima del concerto di Hibrahim Malouf in ottobre – tra l’Auditorium Parco della Musica (ora dedicato ad Ennio Morricone), la Casa del Jazz ed il Monk Club. Nel lungo e variegato elenco di musicisti invitati quest’anno spiccano, accanto ai nomi altisonanti, numerosi eventi dedicati ad artisti emergenti o meno noti, con una speciale apertura verso le nuove e nuovissime leve del Jazz italiano. Tra i nomi di maggior richiamo ricordiamo John Scofield Trio, Tony Levin’s Stick Men, il pianista sudafricano Nduduzo Makhathini, Yellowjackets, Avishai Cohen Trio, gli scandinavi Jan Bang & Eivind Aarset Trio, e tra gli italiani Francesco Bearzatti, Raffaele Casarano, Cecilia Sanchietti con il suo Swedish 5tet, Anaïs Drago, Ilaria Capalbo, e tra i giovani la Jazz Campus Orchestra diretta da Massimo Nunzi con l’aggiunta di ben tre concerti riservati a bambini e ragazzi.

Gran finale del Festival, domenica 26 novembre presso la Sala Petrassi dell’Auditorium, con il trio di Shabaka Hutchings, Hamid Drake e Simo Lagnawi. Londra, metropoli multi-etnica per antonomasia, è in questo momento la città-faro del nuovo Jazz britannico, con una musica innovativa che, mescolando funk, elettronica, dub e linguaggio jazzistico riesce ad avere diffusione e successo anche tra le nuove generazioni. Questa scena artistica ruota attorno alla figura centrale del sassofonista e polistrumentista Shabaka Hutchings, classe 1974, cittadino britannico nato a Londra ma di discendenza caraibica. Anima di numerosi gruppi, dall’electro-jazz di Comet is Coming, all’afro-funk dei Sons of Kemet o all’afrofuturismo di Shabaka and The Ancestors, vanta collaborazioni di spicco oltre Atlantico con Makaya McCraven e Kamasi Washington, ma anche che con musicisti sudafricani e caraibici, e con esponenti della cultura sahariana degli Gnawa del Sud del Marocco, e si caratterizza quindi come anello di congiunzione tra culture diverse e catalizzatore di nuove tendenze artistiche.

Ultimamente ha focalizzato la propria ricerca in una sorta di “ritorno all’Africa” che riemerge ciclicamente tra i suoi lavori, come nel recente album “Afrikan Colture” del 2022, un disco assai particolare, suonato in totale solitudine e quindi lontanissimo da qualsiasi intento commerciale, tutto giocato in un dialogo intimo ed introspettivo tra sassofono, flauti in legno e strumenti africani. Non stupisce quindi che nel suo recente tour in Italia si sia presentato con un inedito trio, insieme al carismatico, straordinario batterista e percussionista Hamid Drake, e al cantante-musicista marocchino Simo Lagnawi – che per l’occasione sostituiva Majid Bekkas – polistrumentista e suonatore di guembri, una sorta di chitarra-basso a tre corde tipica della tradizione musicale Gnaoua. In Marocco i Gnaoua sono gli eredi degli schiavi neri deportati secoli addietro dall’Africa subsahariana, depositari di una propria specifica cultura e di particolari tradizioni musicali, che si esprimono tanto nell’intrattenimento che in funzione liturgica, nel corso di cerimonie notturne che durano ore e che culminano in fenomeni di possessione e di trance. (Chi scrive ha avuto la fortuna di assistere anni fa ad un piccolo concerto privato di autentici musicisti Gnaoua in Marocco, a sud di Merzouga, ultimo avamposto abitato sul limite del grande deserto al confine con l’Algeria).

Shabaka si è esibito, oltre che al sassofono tenore, con tutta una serie di flauti etnici, di varia foggia e timbro diverso, ivi compreso un suggestivo flauto traverso in legno con il quale riesce ad esplorare i suoni più bassi e profondi della melodia. Tutti i brani, dopo l’esposizione del tema iniziale, si sviluppano in un dialogo “inter pares” tra i tre musicisti sul palco, sospinti dal possente canto gutturale e dal basso continuo del guembri di Lagnawi, preso per mano, aperto ed espanso ai massimi livelli da Hamid Drake, autentico co-leader del gruppo, che mantiene la singolare capacità di far “cantare” la batteria con un ventaglio di sottigliezze ritmiche e coloriture timbriche, senza per questo rinunciare, laddove necessario, ad una netta e potente scansione ritmica. Magnifica una sua performance “etnica” eseguita con il tamburo a cornice. Un musicista magistrale, nel cui ricco eloquio risuonano gli echi africaneggianti dei grandi maestri, da Art Blakey ad Elvin Jones.

Shabaka si lancia senza remore nei suoi assoli al tenore, nei quali un’intensità espressiva torrenziale prevale nettamente sulla sottigliezza del fraseggio, tanta irruenza è però bilanciata dalle più calme e suadenti sortite ai flauti, che, evocando mondi misteriosi ed orizzonti sconosciuti, stemperano la pressione sonora dell’intero gruppo. In ogni caso, l’approccio “mistico” e l’atmosfera “afrocentrica” della performance, rimandano giocoforza all’eredità spirituale di John Coltrane e Pharoah Sanders, rivisitata però con un carattere del tutto personale ed una nuova visione che guarda al futuro. Toccanti e profondamente sentite le parole pronunciate da Hamid Drake a conclusione dell’esibizione, parole di pace, di speranza, di umanità e di fratellanza tra i popoli, con le quali ha ribadito ancora una volta che “la musica è la forza salvifica dell’universo”. Un concerto quindi davvero riuscito, di grande impatto emotivo sul pubblico entusiasta che ha gremito la Sala Petrassi dell’Auditorium.

Hamid Drake e Shabaka Hutchings

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