Un costrutto sonoro distillato in purezza, dove la parola jazz può essere scritta a caratteri cubitali, in cui la scelta del chitarrista napoletano risulta tutt’altro che manieristica e calligrafa rispetto al glorioso passato del bop, ma rappresenta un invito alla rilettura di taluni stilemi collocati all’interno di un presente dinamico e proiettato verso il futuro.

// di Francesco Cataldo Verrina // »

Gli anni ’60 sono stati il periodo di massima sperimentazione e innovazione musicale, non solo in ambito jazzistico. Mi sembra di sentire le parole dei Gianni Minà che parlava spesso di «favolosi anni Sessanta». In verità i Sixties sono stati un momento fantastico sotto ogni profilo: anni di boom per la nostra economia, la swingin’ London, l’evoluzione della beat generation, le contestazioni giovanili, soprattutto molti artisti in quel decennio cercarono di esplorare nuove possibilità espressive, sfidando le convenzioni armoniche, ritmiche e formali del genere. Il bebop degli anni ’60, con il suo codone ombelicale saldamente legato ai Cinquanta, fu anche un fenomeno culturale e sociale, che rifletteva le tensioni, le proteste e le aspirazioni di un’epoca di cambiamenti epocali, delineando l’era di massimo fervore creativo per il jazz moderno e dando vita ad una serie di metalinguaggi e stilemi, dall’hard bop al free, dal jazz-rock al cool jazz, tutti elementi basilari che sarebbero diventati i principali asset del contemporary mainstream e delle sue molteplici diramazioni. Oggi dire «My Sixties In Jazz» non costituisce solo un moto di nostalgismo o di una ricerca del tempo perduto, ma il desiderio di ritornare alla sostanza di un genere che, negli ultimi decenni, è stato fin troppo imbarbarito e mal interpretato. Nicola Mingo, chitarrista di rango, lo fa con sale e sapienza e con una modalità che lo lega inequivocabilmente all’hic et nunc dell’attualità jazzistica.

Il progetto discografico di Nicola Mingo, pubblicato da Alfa Music, pur guardando nello specchietto retrovisore della tradizione, è la maniera più limpida di liberarsi dai condizionamenti di una tendenza alquanto becera che vorrebbe il musicista jazz impegnato ad individuare il valore di elementi aggiuntivi e contaminati, che, talvolta, non fanno altro che alterare il valore di un concept sonoro ed elevare il temine jazz ad un vero e proprio abuso linguistico. La scelta di una solida sezione ritmica di accompagnamento, Francesco Marziani piano, Pietro Ciancaglini contrabbasso e Pietro Iodice batteria, aggiunge forma e sostanza ad un concept sonoro distillato in purezza, in cui la parola jazz può essere scritta a caratteri cubitali. Tutto ciò suffraga l’idea che la scelta del chitarrista napoletano, il quale con questo album festeggia i suoi sessant’anni, sia tutt’altro che manieristica e calligrafa rispetto al glorioso passato del bop, ma piuttosto un invito alla rilettura di taluni stilemi collocati all’interno di un presente dinamico e proiettato verso il futuro. Tutto ciò fuga il pericolo di un tributo al passato; per contro, dall’impostazione narrativa emerge prepotentemente una track-list in cui alcuni vecchi standard fanno solo da diluente ed a volte da collante alle composizioni originali che sono in numero maggiore e tutte farina del sacco di Mingo.

L’iniziale «Bopping» scritta dal chitarrista partenopeo, legata idealmente alla terza traccia «Flying» a cui fa da raccordo «Two Of Kind» di Terence Blanchard, diventano il manifesto programmatico del progetto, ma ci si avvede immediatamente che la ricchezza armonica è ampiamente più articolata rispetto al minimalismo polimodale dei Sixties e che non vi sono tentativi di andare per vie oblique, mentre la solida retroguardia, rappresentata dal basso di Ciancaglini e dal kit percussivo di Iodice, funge da argine alla fuoriuscita del flusso sonoro dal canone jazzistico. Così come «One By One» di Wayne Shorter viene regolarizzata e riporta a nuova vita dal substrato accordale del pianoforte di Francesco Marziani, il quale agisce per linee dirette. Le frasi estese e modulari, che da sempre contraddistinguono il metodo esecutivo di Mingo, si riversano nel suo amore per il blues mai celato e fatto di scale complete prive del coitus interruptus tipico dello sperimentalismo che aleggiava a cavallo degli anni Cinquanta e sessanta, dove ogni cosa sembrava dovesse trasgredire le normative vigenti del jazz. «Bachan Blues» eseguito quasi in overclocking e «Modern Blues» cadenzato ed insabbiato nelle melmose paludi del Mississippi, ne sono una dimostrazione lampante. «The Masquerade» è una ballata quasi cinematica e descrittiva che mette in risalto la conoscenza idiomatica dello scibile sonoro da parte di Mingo, non restringibile all’area boppistica, a parte l’uso sporadico di qualche ottava, forte del sostanziale apporto di sodali funzionali al progetto, ma con lo sguardo sempre proiettato verso logiche più ampie. Le successive «Dig Song», brillante nel suo dialogo collegiale, quasi inter pares, e «L’alba della notte», una ballata dal temperamento chiaroscurale, fatta di tenue pennellate cromatiche e ritmi spazzolati, sono due gemme compositive che travalicano il limite angusto di un jazz datato e nostalgico, anche se a tratti il suono pastoso di Mingo riporta alla mente Wes Montgomery, ma non è certo una deminutio capitis. L’anima blues del chitarrista riemerge dal dinoccolato incedere di «Metropolitan Blues», per poi adagiarsi nell’ultimo tributo ideale al passato con «Confirmation» di Charlie Parker, in cui il line-up torna a ritroso nel tempo, ma come se avesse tra le mani un trastullo d’epoca, adattabile ad una modalità di gioco più contemporanea. L’atto finale, «My Guitar Solo», affidato alla chitarra di Nicola Mingo, è un piccolo saggio da accademia del jazz per chitarra in solitaria. Al netto di qualunque congettura o ipotesi di neo-boppismo o di ritorno al futuro, «My Sixties In Jazz» è sostanzialmente ed esteticamente un disco jazz con la J maiuscola.

Nicola Mingo

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