Chick Corea è stato un genio multiforme, non sempre ortodosso al vernacolo jazzistico tradizionale, ma tutto ciò gli ha consentito di attraversare indenne e da protagonista attraverso i decenni senza mai perdere lo smalto creativo. Soprattutto il pianista italo-americano ha sempre mostrato una capacità innata di intercettare lo spirito dei tempi ed il perenne mutatis mutandis di quello per comodità editoriale molti di noi hanno continuato a chiamare jazz ma che in realtà potrebbe avere un’altra definizione, ossia musica d’autore.

// di Francesco Cataldo Verrina //

«Leprechaun» è una parola dal suono arcano e misterioso si pronuncia «leprekan» ed è un’espressione legata al folklore celtico che in gaelico significa piccola fata, una sorta di folletto un essere immaginario dai poteri magici, una creatura della mitologia irlandese piuttosto maliziosa e cattiva. In realtà l’album è una narrazione fiabesca sottesa da sonorità oniriche che oltrepassano la fusion screziata per approdare ad una sorta di jazz multistrato, imperniato su un flusso elettrico di suoni dal sapore rock progressive. «The Leprechaun» fu il primo di una serie di tre album di Chick Corea che racchiudono un complicato concept sonoro, debordante di idee ed alimentato da una vasta strumentazione. Seguiranno su questa falsa riga il più celebre «My Spanish Heart» e «The Mad Hatter».

Risulta complicato incasellare questa tipologia di musica all’interno di una singola disciplina: lo stile e l’umore sono mutevoli, mentre l’improvvisazione jazz cede, a volte, il passo ad una aura sonora classicheggiante, altre ad una costruzione tipicamente prog. L’atmosfera è dolce ed allettante, a volte infantile, ottimista e brillante, senza mai rasentare kitsch. L’impianto sonoro è costruito da un grande ensemble, tra cui basso, batteria, sintetizzatore elettrico, pianoforte, strumenti acustici come flauto e sassofono, un quartetto d’archi, alcuni ottoni ed una voce femminile. Tutta questa ricchezza di suoni e strumenti non vine svelata simultaneamente, ma lentamente ed in progressione: certi strumenti vanno e vengono, alcuni brani sono molto brevi e realizzati con pochi elementi, mentre altri sono ben orchestrati più estesi e dettagliati nell’arrangiamento. «Leprechaun’s Dream», la traccia più lunga, con oltre tredici minuti rappresenta il climax dell’album. Il modulo espressivo proposto gioca sulla coralità di una composita jazz-rock band, arricchita da un quartetto d’archi, e da una sezione di ottoni. Le complesse manovre tra sonorità e stili molteplici descrivono ampiamente la genialità di Corea. L’album si apre con «Imp’s Welcome», una breve traccia, caratterizzata dai sintetizzatori di Chick sottesi da insistenti percussioni che sviluppano una arabesco post-moderno, attraverso una sorta di melodia orientale. A seguire «Lenore», un lungo intreccio sonoro stilizzato, che aggiunge piano, batteria, basso e la voce di Gayle Moran, quasi impercettibile ed usata come uno strumento melodico. «Reverie» e solo un breve preludio, eseguito al pianoforte di Corea con il supporto della voce di Gayle. «Looking at the world» è una canzone vera e propria fatta di suoni e le parole, dove una sorta di sceneggiatura canora diventa preponderante sul fattore improvvisazione.

La teatralità entra in scena: ouverture, crescendo, coda e intermezzi, dove la fa da padrone il quartetto d’archi attraverso linee brevi e ben calibrate. «Nite Sprite» ha un’anima funkified con attacchi veloci ed un ottimo interplay tra il sax soprano di Joe Farrell ed synth del leader che improvvisano a briglie sciolte. Corea tocca i tasti con rapidità felina, la batteria al galoppo con Steve Gadd, che sembra avere otto mani, e il basso di Antony Jackson dal tocco incisivo producono una mescola sonora degna di una fusion di alta scuola. La B-Side si apre con «Soft and Gentle», un’altra composizione avvolta in un’atmosfera fiabesca e dotata di un impianto melodico a presa rapida, contrappuntato dagli d’archi e dagli ottoni, ma è il pianoforte del pianista italo-americano che offre al tracciato la possibilità di un’espressione ampia ed avvolgente. «Pixiland Rag» è una short track o di condensato sonoro in stile ragtime, quasi un’endovena veloce dove sono ben in evidenza il pianoforte ed il sintetizzatore per basso che a tratti suona come un vibrafono. Il finale, come già descritto, è affidato a «Leprechaun’s Dream» che riassume il senso dell’intera creazione con l’uso di tutti gli strumenti e con l’aggiunta di un flauto e di un ottavino. «The Leprechaun» è un album spesso sottovalutato di Chick Corea, ma in realtà si sostanzia come il frutto di un raffinato esercizio compositivo e di un’esecuzione di altissima qualità, basata su jazz improvvisato e sezioni scritte con linguaggi differenti ma dialoganti. Chick Corea è stato un genio multiforme, non sempre ortodosso al vernacolo jazzistico tradizionale, ma tutto ciò gli ha consentito di attraversare indenne e da protagonista attraverso i decenni senza mai perdere lo smalto creativo. Soprattutto il pianista italo-americano ha periodicamente mostrato una capacità innata di intercettare lo spirito dei tempi ed il perenne mutatis mutandis di quello per comodità editoriale molti di noi hanno continuato a chiamare jazz ma che in realtà potrebbe avere un’altra definizione, ossia musica d’autore.

Chick Corea

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