// di Francesco Cataldo Verrina //

Il jazz è vecchio, il jazz è morto, oppure ha solo un cattivo odore come diceva Frank Zappa. Il jazz è vivo, ma sono vecchi i fruitori del jazz, almeno nella media, l’età è compresa fra i 65 ed gli 80 anni. Soggetti in massima parte di sesso maschile, nostalgici e distanti dalla realtà in divenire, che custodiscono un mausoleo di cimeli e di ricordi impolverati. Non c’è nulla di male ad invecchiare, ma come diceva mia nonna: la vecchiaia è una carogna, specie se non si hanno capacità di adattamento al mondo che cambia. Il nostalgismo è la certificazione fisiologica di una vecchiaia mentalmente atrofica. A volte ci domandiamo che cosa sia il jazz o che cosa non lo è. Le risposte sono confuse, frammentarie, incomplete, sovente ingiustificate, talvolta ridicole.

Tempo fa chiesi quale fosse la differenza tra il bop e l’hard bop e venne fuori qualcosa che somigliava alla relazione tra rock e hard rock, ma non è assolutamente così. Sulla differenza tra tonale e modale, molti hanno dribblato, qualcuno ha detto: il tonale usa le scale tonali e il modale le scale modali, come dire, la pasta in bianco è senza sugo, quella col pomodoro è con il sugo. Sul concetto di free-jazz leggo che c’è più simpatia o antipatia o filosofia, qualcuno viene a rinfrescarci al storia, ma sarebbe come voler operare qualcuno senza conoscere l’anamnesi. La domanda è questa: ma l’abbiamo capito che cosa sia il free-jazz e che cosa unisce o separa Ornette da Cecil Taylor, Albert Ayler da Anthony Braxton, tecnicamente intendo e non solo per il fatto che suonino strumenti diversi o che siano nati in un’altra città, ma soprattutto, avanguardia è sempre e solo free jazz?

Molti musicisti spesso rifiutano, ed a ragione, un certo integralismo, quando si parla di sintassi regolare del jazz o di ortodossia del jazz. Eppure, non sono tante le anime inquiete e vaganti musicalmente, amanti delle commistioni, del terzomondismo musicale, delle sonorità e dei ritmi che guardano a Sud ed Est del mondo; all’uopo e per convenienza si diventa reazionari e conservatori. La globalizzazione culturale ci spinge tutti a considerare il jazz come una materia viva, plasmabile, quindi per molti è facile, comodo ed agevole definire jazz qualsiasi cosa che si muova, sibili o respiri, oppure qualcosa che appartenga semplicemente al passato. Certo, l’africanismo genetico dal jazz ha molte più affinità elettive con le musiche caraibiche, orientali e sud-mediterranee. Soprattutto, il nodo gordiano potrebbe essere sciolto se si capisse che il jazz è di base un insieme di elementi folklorici tradizionali, arricchiti da istanze moderne e contemporanee, legate anche alle problematiche culturali e sociali e non meramente intrattenitive, che oggi guardano in molte direzioni, fermo restando che tutto ciò sia basato essenzialmente su «natural chords» e strumenti acustici e non sofisticazioni elettroniche ed artifici di studio. Non è che sia tanto importante stabilire un concetto assoluto di jazz o trovare un compromesso, ma quanto avere qualche dubbio, su ciò che è o che potrebbe essere. Evitiamo, però, il festival dei luoghi comuni.

Il jazz è una sorta di folgorazione. Ci deve essere un elemento scatenante che faccia scattare la molla del desiderio e dell’interesse. Fatta eccezione per chi studia musica che ha delle consapevolezze diverse, per l’ascoltatore medio ci deve essere qualcosa che lo leghi ad un momento, ad un’esperienza particolare, che può essere anche un disco regalato, un album ascoltato per caso in un contesto particolare, un concerto, ma deve esserci un moto spontaneo dell’anima. L’interesse per un certo tipo di musica, specie per il jazz, non può essere costruito a tavolino. Noi diamo dei consigli, che non sempre sono adeguati a tutti, ma già si rivolgono a persone che hanno iniziato un percorso o che lo seguono da tempo.

Sono contrario, personalmente, ad una sorta di vademecum pre-compilato per avvicinare una persona del tutto ignara al jazz. È come invitare qualcuno ad un pranzo di cui non conosce nessuna pietanza, che oltremodo non saprebbe neppure come mangiare. L’idea di una costruzione didascalica di un gusto per il jazz, soprattutto pensando ad una sorta di scaletta che parta dalle origini per arrivare ai giorni nostri, è quanto mai ridicola. Il jazz oltretutto è fatto di epoche e compartimenti così diversi fra loro e difficili conciliare. A mio avviso, se si usa la via maestra della discografia, bisogna partire da prodotti più facili, con melodie semplici e non importa quanto importante sia l’artista. Faccio un esempio banale: un disco di Frank Morgan degli anni ’80 può essere più risolutivo di qualsiasi capolavoro, considerato tale da gente già esperta, che oltremodo considera le cose più complesse, intellettualoidi e complicate come quelle più importanti. Per esempio quattro degli album più rigettati dai neofiti sono «A Love Supreme» di Trane, «Out To Lunch» di Eric Dolphy, «Free Jazz» di Ornette e «Bitches Brew» di Miles Davis.

Il jazz non ha più una grande platea, come un tempo, è difficile vivere di jazz. I giovani vi si avvicinano poco, spaventati anche dalla comunicazione sbagliata, mal canalizzata, non centrata, euro-diretta, afro-centrifuga ed un po’ aulica perpetrata da certi scribacchini di bassa lega. Privo di un folto pubblico e di un largo consenso, il jazz ricorda tanto quel bambino che suonava per gli orsacchiotti. Il Jazz ha cento anni di vita, proviamo a suddividerlo in quattro periodi, che nulla hanno a che vedere con gli stili, le tendenze, i genere i sottogeneri che si sono succeduti nell’arco di un secolo. Dovremmo cercare di individuare i nuovi geni, ma anche qualche promessa del jazz mondiale, partendo da artisti nati negli ultimi decenni, ossia musicisti con un’età compresa tra i 25 e i 30 anni al massimo.

Partiamo dal concetto che il jazz sia, da tempo, diventato un linguaggio globale ed universale, di cui, in ogni landa del Pianeta Terra, si sono appropriati artisti di ogni razza e religione, ceto e censo. Sono molteplici le influenze di cui il jazz, oggi, è permeato attraverso una varietà di ritmi, colori e di soluzioni altre, che vanno dal pop-hip-hop al folk-etno, della musica sperimentale, passando per la classica e l’elettronica. Tutto ciò che cosa ha prodotto? Il jazz è composito macrocosmo identificato in Italia in prima istanza con gli artisti statunitensi, in prevalenza afro-americani, e con pochi musicisti Italiani, appartenenti alle vecchie generazioni, nonostante quelle più recenti, continuino a proporre una musica di notevole qualità compositiva ed esecutiva. Sono davvero pochi i musicisti italiani, che abbiano raggiunto una fama tale da poter competere con i nomi stranieri in fatto di presenze nei maggiori Festival mondiali, vendite discografiche e spazio sui media. E tutto questo non è un bene, perché l’industria discografica, nel nostro paese, attraverso piccole e volenterose etichette indipendenti, produce in maniera copiosa.

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