Ornette che suona il sax tenore potrebbe sembrare almeno un ossimoro, ossia un contrasto logico. Probabilmente questa scelta più che un’antitesi divenne una sorta di nuova tesi.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Conosciamo bene la parabola ascendente e discendente di Ornette Coleman, i suoi repentini cambiamenti d’umore e quel carattere provocatorio, ma dispettoso e divertito, quasi infantile. Quando qualcuno gli chiedeva di parlare della filosofia o della metodologia che aveva ispirato il suo modo di concepire il jazz, l’altoista texano faceva riferimento ad un oscuro libro di musica «The Harmolodic Theory». Citato per la prima volta ufficialmente nelle note di copertina dell’album «Skies of America» del 1972, egli se ne attribuiva la paternità, solo che il testo non è mai stato pubblicato come tale, (rimanendo uno strano oggetto non identificato nella testa di Coleman), in cui l’autore avrebbe dovuto illustrare le caratteristiche della sua musica il suo paradigma eversivo rispetto al tradizionale vernacolo jazzistico e quelle composizioni dissonanti ma intrise di blues e di aspra polvere del texana, che incarnavano una sorta di coscienza cosmica. Nel 1960, un detrattore del calibro di Charles Mingus descrisse succintamente sulla rivista DownBeat il modo di suonare di Coleman come: «Disorganizzazione organizzata, o suonare male nel modo giusto». Questa capacità di capovolgere le aspettative di chiunque, talvolta anche le sue, ha ispirato generazioni di compositori jazz e rock. Lou Reed e Patti Smith hanno ammesso di aver portato, idealmente, nei loro primi lavori l’attitudine ornettiana a voler stravolgere l’ordine costituito, così come molti punkers newyorkesi. Il critico Ben Ratliff dichiarò di sentire un’eco del sax di Coleman nel «piangente raspare» di Bob Dylan.

Ornette è stato un musicista rivoluzionario, il quale ha fatto di necessità virtù, dotato di una mentalità da burlone, pronto a cambiare le carte in tavola e girare il discorso a suo vantaggio, proprio come un bimbo che intenta prendersi gioco del mondo degli adulti, arrivando fino alle battute sulle scoregge: «Il suono è libero come il gas che passa attraverso il sedere», disse una volta allo scrittore Philip Clark. Finanche il Coleman che passa al sax tenore potrebbe apparire come una beffa. In effetti, Ornette che suona il sax tenore potrebbe sembrare almeno un ossimoro, ossia un contrasto logico. Probabilmente questa scelta più che un’antitesi divenne una sorta di nuova tesi. Un bel giorno l’inventore dell’armolodia se ne uscì con la seguente dichiarazione urbi et orbi: «Le migliori espressioni dei neri, intorno a ciò che rappresenta la loro anima, sono state fatte al sax tenore». Per Coleman il sax tenore non era uno sconosciuto, essendo stato il suo strumento principale, quando negli anni ’40 suonava nei gruppi R&B e nei minstrel (spettacoli basati su una miscela di sketch comici, varietà, danze e musica), ma il passaggio al contralto era stata una scelta saggia e vincente, caratterizzandone la carriera e lo stile.

A parte le raccolte successive, «Ornette On Tenor» rappresenta ufficialmente l’ultimo album con l’Atlantic. Si tenga conto che il sassofonista, proprio con l’Atlantic, aveva pubblicato una serie di album seminali, i quali erano riusciti a scompaginare le regole del gioco ed il vernacolo del jazz tradizionale. Dopo la prima serie di dischi per la Atlantic, Coleman, per un certo periodo, si diede alla macchia. Niente tour, niente spettacoli, niente registrazioni. Le leggende metropolitane abbondano di jam informali con Cecil Taylor e Albert Ayler, ma non ci sono registrazioni a provarlo. Ciononostante, «On Tenor» non fu un’operazione a tavolino, studiata per liberarsi di qualche obbligo contrattuale o altri legami con l’etichetta: nell’album si respira un’atmosfera molto spontanea e si percepisce l’effettiva convinzione di Ornette di ricorrere al suo antico strumento. L’uso del tenore gli consentì di aggiungere elementi di novità al costrutto sonoro, anche se il fraseggio ed i moduli espressivi non risultano diversi da quelli manifestati attraverso l’uso del contralto, salvo l’essere un po’ più lento dato il maggior volume di respiro richiesto dal tenore. Il sassofonista sfrutta anche alcuni trucchi mutuati dalla sua passata militanza nel mondo dell’R&B, in particolare una sorta di glissato grasso e pastoso ed alcuni effetti «clacsonati», ma ci sono davvero poche differenze rispetto all’uso del sax alto e nel suo approccio alla materia: tutto sembra rientrare nella norma.

L’unico elemento di diversità fu determinato dal fatto che lo spostamento timbrico scurì leggermente l’umore di Coleman, diminuendone l’abrasività rispetto al contralto, a tutto vantaggio di un tono più caldo e seducente. Come in quasi tutte le sessioni di registrazione per la Atlantic Records, Coleman impiegò un quartetto pianoless: Don Cherry alla tromba, Ed Blackwell alla batteria e Jimmy Garrison al contrabbasso. Fu proprio quest’ultimo a costituire l’anello debole della catena. Charlie Haden aveva lasciato il gruppo di ed il suo immediato sostituto, Scott LaFaro era morto tragicamente in un incidente stradale pochi mesi dopo queste sessioni. Jimmy Garrison, arrivato dopo LaFaro, era un bassista molto più convenzionale ed aveva un rapporto difficile con Ornette, tanto che spesso ne rifiutava le idee musicali. La tensione personale che circonda Garrison è evidente in alcuni punti, ma Ornette sembra per lo più ignorarlo. Il bassista si trattiene attenendosi a motivi statici piuttosto che tuffarsi a capofitto oltre il punto di non ritorno; al contrario il batterista Ed Blackwell risulta in forma smagliante, compensando la piattezza di Garrison e rendendo l’esecuzione del basso meno asfittica. La progressione ritmica del batterista è scivolosa e agile: pur non smarrendo mai il senso di marcia e la calibratura del metro, suona senza che questo diventi un limite alla sua inventiva.

L’opening «Cross Breeding» evidenziava sia il cambiamento strumentale che quello del bassista: Dopo l’assolo di Coleman il pezzo si sviluppa attraverso un fluente interplay che coinvolge i quattro sodali. «Mapa» appare come una struttura anarcoide: Cherry e Coleman sembrano andare alla deriva abbandonandosi al flusso delle idee, mentre i loro fraseggi alimentano una giocosa competizione; dal canto Blackwell, con le sue le terzine sincopate, consente al basso di ampliare il raggio di azione. «Enfant» è una perpetua variazione esplorativa, imprevedibile ed energetica, dove perfino lo «svogliato» Garrison riesce a mantenere, costantemente, l’orecchio vigile sugli ottoni, pronto ad indurli a più miti consigli ed a contenerne gli eccessi. «Eos», ispirato alla dea dell’alba, più di ogni altro brano, mette in evidenza la capacità di Coleman sul tenore anche in fase d’improvvisazione. Con «Ecars» si raggiunge il bilanciamento perfetto e la quadratura fra gli strumenti, il gioco di squadra lega i toni più alti di Coleman e Cherry ai piatti trainanti di Blackwell e al contrabbasso swingante di Garrison. Gli ottoni, da parte loro, suonano con divertita e voluta contraddizione, emettendo melodie dal suono festante, basate su una razionale dissonanza ed una consapevole irriverenza. «Ornette On Tenor», album spesso snobbato, è molto più di quanto ci si aspetti dal cambio di uno strumento, nel bene e nel male, anche perché Ornette è sempre Ornette.

Ornette Coleman

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