// di Francesco Cataldo Verrina //

McCoy Tyner è stato uno dei pianisti jazz più importanti di tutti i tempi, considerando che la sua opera si è consumata nell’ambito di un range spazio-temporale abbastanza ampio, abbiamo la possibilità di cogliere distintamente le tante evoluzioni, le trasformazioni ed i mutamenti legati probabilmente ad una spiccata capacità di adattamento ai tempi. Di certo, Tyner non è stato uno che cavalcava l’onda o scimmiottava le mode, il suo stile risulta pressoché netto e distintivo in ogni epoca da lui attraversata: talvolta fedele al canone più tradizionale del bop, altre volte latore di novità ed anticipatore di istanze sonore. Un dato può essere acquisito agli atti: un conto è il McCoy Tyner dei dischi come band-leader, un conto è il pianista che suona nel classico quartetto di John Coltrane dei primi anni ’60, dove a decidere era un’altra forma mentis, che comunque si completava e si sostanziava spesso nell’apporto pianistico di Tyner.

In «Sama Layuca» c’è il McCoy Tyner all’apice dei suoi poteri di sacerdote laico che ha assunto i sacramenti ed i paramenti del modale; dirige la congrega, compone a schema libero, mentre quando abbassa le mani sul piano disegna arazzi sonori con lussureggiante lirismo, intrecciando i fili di una musica dai tratti ecumenici. «Sama Layuca», non fu il primo e neppure l’ultimo di una gratificante serie, che vedeva il pianista contornato da un variopinto e variegato gruppo di eccellenti esecutori e comprimari di lusso: il vibrafonista Bobby Hutcherson, l’altoista Gary Bartz, Azar Lawrence al tenore e soprano, John Stubblefield che raddoppia su oboe e flauto, il bassista Buster Williams, il batterista Billy Hart e Mtume insieme a Guilherme Franco alle percussioni. McCoy Tyner propone un concept dalle sonorità avvolgenti, dispiegate come una narrazione cinematografica, attraverso un percorso esplorativo in crescendo. Tutti e cinque i frammenti dell’album sono originali, legati da una sorta di causa-effetto e recano in calce la firma del pianista leader. Possiamo addirittura parlare di un lavoro in anticipo sui tempi. Il costrutto sonoro è lungimirante, tanto che, negli anni Ottanta, aprirà idealmente la strada a molti jazzisti di quarta generazione. Due sassofonisti, alcuni flauti e un oboe insieme a tre «battitori» che si dividono le percussioni, vibrazioni, marimba e congas riversano nel flusso sonoro una ricca quantità di mood, sfumature, ritmi e cromatismi.

«Sama Layuca», registrato al Sound Generation Studio di New York per la Milestone il 26, 27 e 28 marzo del 1974, è un album non frazionabile, sia pur suddiviso in cinque tracce, che sarebbe più giusto chiamare movimenti, i quali appaiono ispirati, concatenati dallo medesimo humus compositivo ed impregnati nelle stesse sostanze sonore, dove tutto è omogeneo nella struttura, nel contenuto e si equivale per forza espressiva e temperamento poetico, mentre le melodie, le armonie e i poliritmi si muovono trascinati da una leggiadra sensualità. «Sama Layuca», possiede la stessa vena ispirativa ed il medesimo humus di «Extensions», al netto del numero di sidemen, soprattutto rappresenta la logica continuazione di «Song Of The New World» che il pianista aveva registrato l’anno precedente. Questa volta, l’enfasi viene posta meno sui grandi arrangiamenti e più sull’interazione di gruppo. Il line-up è cambiato ed il nucleo operativo offre differenti dinamiche all’interattività fra i vari musicisti. C’è un puntino da segnalare, dove le stelle brillano di più: un duetto da accademia del jazz fra Tyner e Hutcherson in «Above The Rainbow», la traccia più corta dell’album, da non confondere con la smielata «Over The Raimbow». «La Cubana» che si dipana sulla lunghezza di oltre dieci minuti è giocata su una ridda di percussioni tensioattive; l’inizio di «Paradox» è abbastanza ruffiano ed accattivante, ma poi esplode con l’eroe del vibrafono Bobby Hutcherson che espelle dal metallofono fulmineo assolo durante il quale uno dei sassofonisti tenta di interromperlo. Si percepisce una sana competizione, ma Hutcherson sembra dirgli: «No, amico mio, lo faccio ancora!», mantenendo il ruolo di protagonista sulla scena per qualche altra misura. «Under the Sea» ha un tratto assertivo e determinato. La title-track, «Sama Layuca, distesa, sbottonata ed esplorativa, è uno dei punti di forza da cui si dipana l’energia che pervade l’intero concept: le dimensioni del gruppo consentono un’ampia gamma melodico-armonica. “Desert Cry” che apre la B-Side descrive perfettamente lo stato d’animo di una notte fra le dune, tra ansia e preoccupazione per l’insolito, mentre il line-up si muove su un flessuoso arabescato. Per tutto l’album, il valore aggiunto è Tyner. Il suo modo di suonare interdimensionale, produce una serie di suggestioni a metà strada fra fiction e letteratura: un film (o romanzo) che narra di una vita ricca, stimolante ed avventurosa circondata dappertutto da una giungla enorme e lussureggiante con una radura che conduce a una spiaggia da sogno.

Ancora una volta, Tyner e soci si muovono sul terreno, talvolta impervio, di un modale spinto. L’interazione di gruppo e le superbe improvvisazioni fanno di questo album ad alta definizione stilistica una delle tappe più interessanti del catalogo tyneriano. Presto il jazz avrebbe esaurito le scorte di fertilizzanti creativi, l’industria, e perfino il pubblico, avrebbe perso interesse per il jazz più ambizioso, ricercato e sperimentale; finanche McCoy Tyner avrebbe cominciato a reiterare il medesimo copione, andando a cercare la sabbia rimasta impigliata fra le dita dei piedi (come dire raschiando il fondo del barile) pur di garantirsi due pasti caldi al giorno, ma «Sama Layuca» rappresenta ancora un momento di eccellenza del jazz anni ’70 in un contesto di forte evoluzione, un’altra tappa vinta in volata nella lunga corsa di McCoy Tyner.

McCoy Tyner

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