«Quando Charlie Parker si alzò sul palco, non sorrise e si mostrò molto serio riguardo a ciò che stava suonando. Soprattutto chiarì che il be-bop era una musica intellettualmente avanzata, una musica ispirata alla libertà e di rottura con il passato.» (Sonny Rollins)

// di Francesco Cataldo Verrina //

Molti di noi non sarebbero qui, oggi, a parlare di jazz, se non ci fossero stati Charlie Parker e la rivoluzione epocale apportata attraverso il bebop. Al principio non tutti furono pronti a stendere un tappeto sotto i piedi di questo trasandato sassofonista, una specie di eroe maudit che sfidava la sintassi del jazz, demitizzando le icone del passato, soprattutto certa stampa, retriva e reazionaria, non comprese che, l’anelito di cambiamento e di rinnovamento insito musica di Bird e della sua generazione di irrequieti boppers, avrebbe presto travolto e scompaginato il vecchio e stantio universo del jazz pre-bellico, imponendo altri giochi di ruolo e differenti regole d’ingaggio. Coloro che trassero benefico, riuscendo ad ottenere il massimo dall’insegnamento di Bird furono quelli che individuarono subito nella sua musica un fattore «rivoluzionario», un’estensione del vocabolario sonoro e dello spirito del jazz, una nuova ricchezza e flessibilità di espressione, un costante rinnovamento e rivitalizzazione del genere. L’influenza di Armstrong dettò legge sui primi vent’anni di storia del jazz e fu, probabilmente, il fattore dominante fino al 1944 circa, anno in cui Charlie Parker approdò con la sua musica nei vari ritrovi della 52esima Strada. In quell’anno, il mondo cominciò a sentire il suono di «Bird» e lo scenario mutò. Molti cercarono di emularlo, altri trovarono stridulo il canto del suo strumento e le critiche arrivarono a valanga; altri ancora non fecero nulla di meglio che porre l’accento sulla sua vita privata, un po’ disastrata, disorganizzata e condizionata dalla dipendenza da alcool e droga. Partendo da tre accordi base del blues, Bird riusciva inventare melodie complesse ritmicamente e armonicamente. Estensioni e alterazioni delle armonie blues, sospensioni irrisolte, ritardate o anticipate, spesso, creavano un effetto di politonalità o atonalità nei suoi assoli. Ritmicamente, anche durante i suoi voli pindarici più rapidi, spostava gli accenti dappertutto, dalla più forte alla più debole pulsazione ritmica.

Bird impiegava le pause, spesso al punto di partenza di un chorus, per creare tensione o effetto sospensione, o perché potesse entrare di soppiatto e mettere in movimento un ensemble poliritmico, sostenuto nelle retrovie da batteria e basso. Se pensiamo alla quantità di materiale sonoro che c’è in giro, tra vecchie stampe, ristampe, registrazioni live (anche pirata) e in studio, si potrebbe pensare che Charlie Parker abbia avuto una vita lunghissima. In verità morì a soli 35 anni, e questo amplificò il suo mito. Ciononostante, la carriera artistica e discografica non fu esigua: a 17 anni suonava già come professionista in big band o combo e le sue prime incisioni risalgono al 1940. Ovviamente, se la sorte gli avesse riservato un differente destino, oggi avremmo avuto ben altri dischi di Charlie Parker e, magari, conosciuto una sua evoluzione o un’ennesima rivoluzione sonora. Tutto ciò che attraversa velocemente il mondo degli uomini e il corso degli eventi artistici, determinando cambiamenti, si trasforma in un mito. Ma Charlie Parker è stato anche un uomo con le sue debolezze, le sue fragilità, le sue contraddizioni, il peso di una vita vissuta ad alta velocità, da cui trasse nutrimento ed ispirazione. La sua musica, ma soprattutto lo «stile Parker» sul sax contralto, a distanza di oltre settant’anni dal suo avvento, risulta ancora vitale e fonte d’ispirazione per migliaia di giovani musicisti in tutto il mondo.

«Now’s Time» – Charlie Parker Quartet (Verve, 1953)

Coloro che trassero benefico, riuscendo ad ottenere il massimo dall’insegnamento di Charlie Parker furono quelli che individuarono subito nella sua musica un fattore «rivoluzionario», un’estensione del vocabolario sonoro e dello spirito del jazz, una nuova ricchezza e flessibilità di espressione, un costante rinnovamento e rivitalizzazione del genere. «Now’s the Time» cattura Charlie Parker durante uno dei suoi periodi di registrazione di punta, accompagnato, in alternanza da Hank Jones piano, Al Haig piano, Percy Heath basso, Teddy Kotick basso e Max Roach batteria, i quali contribuiscono in maniera determinante alla riuscita delle sessioni in studio.

L’album inizia con Parker che si diletta in un’interpretazione altamente personalizzata «The Song Is You», scritta da Jerome Kern, una penetrante melodia che in qualche modo si presterebbe meglio alla voce umana, piuttosto che al trattamento strumentale. Ma Bird fa cantare il suo strumento come pochi in maniera sorprendente, qui, come nel resto dell’album, usando il sax meravigliosamente. Il coro di apertura è un’eloquente conferma della melodia originaria, in cui il sassofonista mostra solo un po’ di impazienza nel voler allungare le ali, svolazzando intorno al tema principale con qualche lieve improvvisazione. Nel secondo inserto, invece, lo fa con assoluta convinzione, creando un’esecuzione impeccabile; con l’avvento del terzo coro ottiene un perfetto effetto d’insieme con la complicità di basso e batteria. Bird sostiene la variazione ritmica, quindi ritorna alla melodia, procedendo in verticale fino al brusco taglio finale; «Laird Baird» dove Baird si riferisce al nome del figlio più piccolo di Parker, è un tema molto originale ed innovativo per l’epoca, seppure basato sul classico blues a 12 battute. I due interessanti inserti di Bird sono seguiti dal pianoforte che procede inconfondibilmente in maniera assai simile al sassofono, segue l’accompagnamento quasi «melodico» della sezione ritmica, sfruttando tutto il potenziale cromatico del suo equipaggiamento sonoro, mentre Bird lo avvolge con la melodia originale.

Un altro figlio di Parker ispirò «Kim». Qui Bird non sviluppa un tema fisso, ma procede per cambi di ritmo. Di questa traccia vennero realizzati diverse take in studio, per dimostrare la sua straordinaria intraprendenza, l’infinita varietà e il fatto che lui stesso, nella musica, raramente abbia preso un granchio; infatti ascoltando le varie take con il senno di poi, ci si rende conto di quanto la scelta, all’epoca, debba essere stata difficile. Al di là delle variazioni di Bird, la seconda take ha due chorus di piano che potrebbero essere definiti «assoli», mentre nella prima take, il piano è più schivo e cammina in retroguardia col basso e la batteria. Roach, in entrambe le riprese, ottiene una un andamento quasi orientaleggiante delle sue percussioni, sia nel timbro che nella complessità del ritmo. Nel terzo inserto sulla seconda take, Bird ricorda il suo primo idolo, nientemeno che Jimmy Dorsey, grande sperimentatore jazz degli anni Venti. «Cosmic Rays», è un altro blues dal tema variegato, di cui furono realizzate due take quasi identiche nell’impostazione. Parker si aggiudica i primi tre cori, diventando «Bird the Preacher», sfoderando tutti i suoi modernismi: come il libro dei salmi di un predicatore, il suo strumento arringa, esclama, esorta. La sua musica alza gli occhi al cielo, implorando il sublime e, quindi terminato il sermone, non ci sarebbe nulla da aggiungere, se non un sonoro «Amen».

La seconda facciata di «Now’s The Time» inizia con un tema originale composto da Parker e registrato in tre versioni differenti, ancora un motivo basato sul blues a tema fisso e con un tempo esuberante, compreso il titolo «Chi Chi». La versione preferita fu la prima, e nessuno avrebbero litigato per sostenere il contrario. Parker si diverte con qualche piccolo trucco e sul sesto chorus di entrambe le take alternative, lancia una piccola citazione di «Evening Star» di Wagner, mentre Haig si riferisce con un accenno ironico a «Toot Toot Tootsie» di Al Jolson. La quarta traccia è un altro standard melodico, «I Remember» di Victor Schertzinger; la title track, «Now’s The Time», scritta da Bird, aggiunge all’etichetta altri ingredienti: un tema melodico, dal sangue blues, scanzonato e spensierato, ma imperniato su ma complessa armonia. Bird imposta il tema su due cori poi cuoce a fuoco lento, mentre il pianoforte, il basso e la batteria vanno tutti in cerca di gloria da solista. Il gran finale è affidato all’arcinoto «Confirmation», brano orecchiabile e di facile impatto, che Bird modifica e rimodella a suo piacimento. Qualunque sia il punto di partenza o di arrivo di questo album, ci troviamo di fronte ad uno dei tanti capolavori di colui che stato il più fertile inventore del jazz moderno.

In «Now’s Time The Quartet Of Charlie Parker» c’è il genio, l’esecutore, l’artista, il compositore, il band-leader, il musicista, sempre consapevole della sua padronanza sullo strumento. Ad abundantiam, ciò che rende questa sessione davvero speciale è l’eccellente qualità delle registrazioni, assente purtroppo in molte delle sue prime pubblicazioni, per quanto artisticamente brillanti. La possibilità di poter ascoltare in maniera nitida ogni singolo musicista o passaggio sonoro, contribuisce a farne una delle migliori session di bebop della storia. Un disco che non può, non deve, mancare.

«Charlie Parker Plays Cole Porter» (Verve, 1955)

Sembra un paradosso che Bird, abbia realizzato uno dei suoi migliori album, soprattutto dal punto di vista tecnico e sonoro, pochi mesi della sua morte, Siamo negli anni ’50, Parker si era affinato, diventando padrone assoluto dello strumento, e nonostante la sua vita sgangherata, sapeva di aver dimostrato al mondo di essere divenuto il numero uno. In questo disco, dedicato alle musiche di Cole Porter suona con un’imponenza ed una qualità ancora insuperate. Durante, la sua non facile giovinezza, fatta di stenti e di povertà, il suo unico cruccio era quello di imparare sempre di più e di dimostrare di essere il migliore. Con il senno di poi, possiamo sottolineare, senza tema di smentita, la genialità di Parker nella scelta di incidere la musica di Cole Porter, in quella che rimane la sua ultima sessione di registrazione. Bird morì il 12 marzo 1955 e questi brani furono incisi a New York solo tre mesi prima della sua dipartita. Nessuno osa discutere la rilevanza di Charlie Parker che interpreta Cole Porter, perché con tale connubio, si ha il privilegio di ascoltare, ancora oggi, due eccellenze indiscutibili nel loro ambito.

Una vera sorpresa, in qualche modo non ortodossa per gli ascoltatori tradizionali di Porter; raramente si era sentito, almeno nelle registrazioni, più di un’interpretazione dello stesso brano. In genere Porter veniva eseguito in maniera alquanto canonica, fedele e con una sacrale riverenza. Bird non dissacra, ma non ha complessi d’inferiorità: l’assenza di una certa improvvisazione viene corretta tramite versioni alternative di «I Get A Kick Out Of You» «Love For Sale» e «I Love Paris». Il sottile cambiamento di ritmo accordato a ciascuna versione di «I Love Paris», il tono divertito e in seguito la velata malinconia iniettata in «Love For Sale», insieme alle diverse sfumature del fraseggio in «I Get A Kick Out Of You», sono tutti deliziosi interludi da manuale. Bird non amava suonare lo stesso assolo allo stesso modo due volte. Per lui l’essenza stessa dell’improvvisazione consisteva nel dare un diverso significato, una nuova implicazione a qualsiasi brano o passaggio sonoro. Ciò avviene anche con la musica di Cole Porter.

Gli strumentisti che condivisero con Parker questa avventura, sul lato A del disco, furono Roy Haynes alla batteria, Jerome Darr, alla chitarra, Teddy Kotik al basso e Walter Bishop Jr. al piano. Sul lato B, Arthur Taylor sostituì Roy Haynes alla batteria e Billy Bauer rilevò Jerome Darr alla chitarra. La musica di Porter ha superato la prova del tempo, divenendo un classico; durante il suo cammino ha incontrato molti tentativi di caratterizzazione, ma ha quasi sempre padroneggiato sulla personalità di qualunque interprete, conservando il proprio marchio di fabbrica, facoltà concessa a una ristretta cerchia di compositori in varie epoche; la musica di Cole Porter può premiare, esaltare o rifiutare la presunta abilità dell’interprete di turno, mettendone in luce limiti espressivi e pochezza creativa. Charlie Parker, per contro vi impresse la sua forte personalità, facendo di Cole Porter una cosa sua. La fedeltà alla musica nel jazz può essere raggiunta solo se, e quando, al musicista è permesso di iniettare atteggiamenti personali negli scritti di base.

«Charlie Parker Plays Cole Porter» rappresenta il giusto compimento di una carriera in perenne movimento. Il talento compositivo di Porter raramente è stato esemplificato così bene come in questo album. La sensibilità di Bird usata nel contaminare quei brani con la sua personalità, nonché il metodo utilizzato nell’interpretare ciò che l’autore aveva scritto risultano non comuni. Charlie sapeva poco o nulla di Cole, e solo il suo approccio maturo all’improvvisazione diventano il vero segno distintivo di quello che in fondo è solo un album di Parker. Cole Porter C’entra poco o nulla, oppure, almeno per paradosso, nel caso di questo disco, potrebbe essere considerato solo un grande autore bop, almeno così Bird lo fa sembrare.

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