// di Francesco Cataldo Verrina //

Chick Corea è stato un musicista con un mazzo di chiavi in mano capace di aprire tutte le porte del jazz su un vasto territorio espressivo. Pur non essendo mai stato un pianista-compositore convenzionale, Corea ha ricevuto molti consensi durante al fase elettrico-sperimentale, mentre la parentesi post-bop acustica viene considerata come un momento transitorio. Eppure il suo pianismo, specie nei primi dischi, denota caratteristiche non comuni, da cui possono essere enucleati i tratti salienti e fondamentali di quelle che saranno le sue regole d’ingaggio. Quando si ascolta Chick Corea si percepisce un approccio più lirico, anche se i brani sono basati su progressioni modali, il pianista trova sempre una maniera per eseguire una melodia veloce che, sia pur frammentata da quello specifico sistema accordale, si trasforma in unico costrutto melodico. Raggiungere questo tipo di coesione nell’impianto modale non era e non è un’impresa alla portata di chiunque. Per una migliore comprensione, bisogna considerare taluni fattori ambientali. Quando nel 1968 Chick Corea pubblicò il suo secondo album, «Now He Sings, Now He Sobs», aveva ventisette anni. Il disco uscì originariamente per la Solid State, una piccola etichetta newyorkese fondata nel 1966 dal produttore Sonny Lester, dal sound engeneer Phil Ramone (futuro hit-makers)) e dall’arrangiatore Manny Albam. La Solid State faceva capo alla Liberty, che nel 1967 aveva rilevato la Blue Note.

Il debutto di Chick Corea come band-leader, «Tones For Joan’s Bones», inciso alla fine del 1966 ma pubblicato solo nel 1968 dalla Vortex, una label sussidiaria dell’Atlantic Records, non aveva scosso troppo l’ambiente discografico e neppure gli umori della critica, tanto che alcuni studiosi sono propensi a considerare «Now He Sings, Now He Sobs» come il vero primo album del pianista, in cui egli mise a punto gli assunti basilari del suo modulo espressivo. Quando nel marzo del 1968 Armando Anthony Corea, detto Chick, varcò gli studi A&R di New York per la prima di tre sessioni, alla guida di un trio composto dal ventenne bassista cecoslovacco Miroslav Vitouš e da un navigato batterista come Roy Haynes, aveva già lasciato un segno nel mondo del jazz come sideman al soldo di Mongo Santamaria, Willie Bobo, Blue Mitchell, Hubert Laws e Herbie Mann (produttore del suo primo disco), soprattutto si stava facendo apprezzare come compositore, avendo contribuito nel 1967 con due composizioni all’album «Sweet Rain» di Stan Getz. Le sessioni di «Now He Sings, Now He Sobs» per al Solid State si svolsero nell’arco di tre giorni, 14, il 19 e il 27 marzo, fissando sul nastro tredici take definitive, di cui solo cinque apparvero sull’album originale. Le restanti otto, nel 1975, vennero inserite in un doppio vinile retrospettivo della Blue Note, intitolato «Circling In», nonché usate come bonus-track per l’edizione in CD immessa sul mercato dalla Blue Note nel 2002.

Corea aveva sempre affascinato chiunque fosse entrato in contatto con la sua musica che esprimeva vitalità, virtuosismo e che si evolveva, soprattutto, seguendo un’inedita prospettiva di composizione e di svolgimento dei brani; questa prospettiva aveva punti in comune con le esplorazioni dello storico quartetto di Coltrane ed, in particolare, con il modulo creativo di McCoy Tyner, ma la visione di Corea includeva altre appendici stilistiche. «Now He Sings, Now He Sobs» evidenziò innumerevoli modi di riformulare taluni concetti in tempo reale mentre il pianista operava su una piattaforma non del tutto testata, ma che si rivelò produttiva e duratura nel tempo. Supportato egregiamente da Roy Haynes e da Miroslav Vitouš, Corea è libero di muoversi agilmente sulle sue cinque composizioni originali, lasciando che gli accordi si addensino accanto alle fluttuanti fughe melodiche. Basso e batteria si esprimono seguendo lo stesso senso di libertà del pianoforte, che spinge «Now He Sings, Now He Sobs» in un punto dove hard-bop e avant-garde si intersecano. Per chiarire il concetto di «Now He Sings, Now He Sobs» («Ora Canta, Ora Singhiozza») ed i titoli delle singole composizioni, Corea scrisse una poesia inserita all’interno della copertina originale dell’album. Il poemetto fu presumibilmente ispirato da un testo cinese «I Ching» (noto anche come «Il Libro dei Mutamenti»), il quale si concentra sulla vicenda umana in generale. Le parole di Corea sottolineano il fatto che gioia e disperazione, amore e odio, vita e morte siano condizioni esistenziali comprese nello yin e lo yang e che ogni umano, inevitabilmente, sperimenterà lungo il viaggio della vita. Tutto l’album è pervaso da un rigore intellettuale bilanciato da un sentimento istintivo che rende il costrutto sonoro vivace e stimolante, per quanto foderato da una patina di comfort.

Tutto il retroterra filosofico potrebbe far pensare a qualcosa di esoterico, in realtà la musica è molto più diretta. L’opener, «Steps – What Was», della durata di tredici minuti e mezzo, inizia con un passaggio di pianoforte discorsivo e leggermente mosso, prima che un riff ripetuto simile a una fanfara segnali l’ingresso di Vitouš e Haynes. Spinto da un veloce linea di basso e da una batteria che non lascia aria ferma, l’impianto sonoro si cala in un’altra dimensione, mentre le dita di Corea fluttuano sui tasti del pianoforte sviluppando un assolo arcuato e zampillante. L’iniziale senso di esuberanza e slancio si dissolve dopo cinque minuti, con Corea e Vitouš che si ritirano, permettendo a Haynes di gongolare sotto i riflettori con un progressione ritmica da manuale. A questo punto si apre un nuovo scenario musicale, si ha l’impressione che il brano sia costituito da due diverse composizioni legate l’una all’altra. Guidato da un groove propulsivo, che presenta cadenze melodiche dal sapore andaluso e componenti armoniche che Corea avrebbe ripreso in seguito nel suo classico «Spain», il costrutto sonoro cambia aspetto. Vitouš dà prova di destrezza e inventiva con un grandioso assolo di basso, contrappuntato dalla squisita armonizzazione di Corea, prima che il lungo viaggio raggiunga il culmine. A seguire «Matrix», che rappresenta l’epitome della libertà creativa. Componimento che si distingue per un tema stravagante prima di evolversi in uno swing mozzafiato, alimentato dal trainate walking di Vitouš, nonché locupletato dal drumming poliritmico del geniale Haynes. Bobby Hutcherson, affascinato da questa composizione di Corea, la riprese lo stesso anno nell’album «Total Eclipse» della Blue Note.

La title-track, «Now He Sings, Now He Sobs» ha un inizio insolito e marziale segnato dal metronomico martellare di Haynes, prima di cambiare passo e trasformarsi in un brano in levare caratterizzato dalle inarrestabili fughe del pianoforte e dal muscoloso ma fluido lavoro di basso. Il pianista trasmette alternativamente gioia e dolore con intervalli maggiori aperti ed ariosi o con accordi minori chiusi, alterati e piangenti. L’interazione fra i tre musicisti è sinergica, quasi telepatica, nel modo in cui ciascuno di essi sembra intercettare le mosse dell’altro. «Now He Beats The Drums, Now He Stops» parte con una lunga progressione pianistica non accompagnata, in cui Corea squaderna tutta la sua abilità ed una consumata padronanza dello strumento, mentre il controllo delle sfumature armoniche è incrementato da istinti classici ed impressionistici. Il modus operandi risulta a tratti lirico e percussivo, riflessivo e dinamico con qualche percepibile traccia di Bill Evans nel suo approccio, ma sono solo suggestioni. Vitouš e Haynes entrano in scena a quattro minuti e mezzo dall’inizio del processo esecutivo, trasformano immediatamente quella che poteva sembrare una meditazione intima ed eterea in uno paradigma di hard bop avanzato con assoli ad alta energia cinetica, ma senza interferire con i mutevoli stati d’animo del pianista. Al contrario i due sodali trasformano l’astrazione in pulsazioni organiche attraverso una visione comune ed un comune sentire che permette loro di alterarne lo stato d’animo del leader e di ritornare allo status quo ante con un semplice sguardo o uno schiocco di dita.

L’album si chiude in una dimensione, apparentemente, destabilizzante con «The Law Of Falling And Catching Up» che, con i suoi due minuti e mezzo, è il brano più breve ed astratto dell’album. Corea e soci improvvisano a ruota libera per creare una cellula sonora d’avanguardia, innestata in un humus spaziale e sospeso, fatto di note di basso rimbombanti, martellate sul pianoforte e vari effetti percussivi, rintocchi avvolgenti, alacri corse pizzicate e rulli di batteria: un percorso alternativo, dove ciò che colpisce, se non illumina, sicuramente stupisce. Chick Corea era appena all’inizio della sua carriera da solista ed avrebbe scritto pagine importanti della storia del jazz moderno, ma «Now He Sings, Now He Sobs» rimane una pietra miliare del suo canone stilistico, mettendo in luce un giovane musicista completo ed un compositore sopraffino, già padrone dello scibile sonoro. Non va tralasciata l’eleganza del trio che si muove sulle coordinate di un denso bop con la stessa grazia con cui si adagia sulle ballate: il suono è caldo, invitante e rileva la tendenza dei tre sodali, Corea in particolare, a non smettere mai di sondare ed esplorare i bordi esterni del jazz modale di quegli anni. Questo melting-pot di empatia meccanica e slancio creativo impressionò Miles Davis che, un paio di mesi dopo, avrebbe coinvolto il talento pianistico di Corea nel suo «Filles de Kilimanjaro». «Now He Sings, Now He Sobs» viene considerato da alcuni docenti un prezioso case-study, quindi consigliato a molti studenti come modello ed esercizio per imparare a suonare un certo tipo jazz, soprattutto per capire quali siano le risorse da poter utilizzare durante un’improvvisazione, nonché molto utile per capire le basi della composizione post-bop di tipo modale.

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