Wayne Shorter è stato nel corso dell’evoluzione del jazz moderno un fenomeno unico. Egli possedeva l’innata tempra del compositore, raramente nei suoi dischi fondamentali ha usato degli standard o materiale composto da terzi, a meno che quel brano non avesse un particolare significato e non si sposasse, per affinità elettiva, al concept sviluppato in quel dato momento.

// di Francesco Cataldo Verrina //

La sua preparazione gli consentì facilmente di andare oltre ed imporsi con grande personalità, definendo presto i tratti ben precisi di uno stile Wayne Shorter. Ultima considerazione, ma non meno importante, è che Wayne Shorter riuscì ad evolversi in maniera naturale, senza snaturarsi o svendersi, non solo seguendo o adattandosi, ma dominando e modellando le nuove tendenze dal jazz da protagonista o inter pares. Dal free jazz alle contaminazioni fusion, restò sempre un indiscusso protagonista nell’attualità della musica e non solo un vecchio superstite di un’epoca leggendaria, intento a rinverdire i fasti di un passato glorioso, come molti della sua generazione fecero. Dopo aver trascorso quattro anni con i Jazz Messengers di Art Blakey, dal 1959 al 1963, dove divenne il direttore musicale, nel 1964 Shorter si unì al secondo quintetto storico di Miles Davis, rimanendo con lui fino al 1970.

Durante il periodo passato al soldo di Miles, Shorter registrò una serie di album per la Blue Note, alcuni dei quali sono delle pietre miliari scolpite nella storia: «Speak No Evil», «JuJu», «Adam’s Apple». L’arrivo di «Schizophrenia», eccellente excursus sonoro, mostra la bivalenza e le due facce della creatività di Wayne: da una parte talune composizioni più regolari e canoniche, anche se innovative; dall’altra la sua vena di sperimentatore ed esploratore, interessato maggiormente alla conquista dei domini free-form e post-bop. Il sassofonista era all’apice della sua potenza creativa quando, nella primavera del 1967, registrò «Schizophrenia», assemblando un sestetto che comprendeva due dei suoi compagni nel gruppo di Miles Davis: il pianista Herbie Hancock e il bassista Ron Carter, insieme al trombonista Curtis Fuller, l’alto sassofonista e flautista James Spaulding ed il batterista Joe Chambers.

Shorter mise in piedi un line-up in grado di trasmettere la sua «schizofrenia» musicale, merito di strumentisti in grado di suonare secondo canoni e regole tradizionali, ma anche di allargare i limiti spazio-temporali del jazz. Nel pieno delle proprie capacità espressive, ciascuno di essi lo fa magnificamente nella traccia di apertura dell’album, «Tom Thumb». Il ritmo e il tema della composizione risultano alquanto chiari, ma l’interazione musicale e gli assoli producono risultati imprevedibili: siamo in un momento di forte contagio «coltraniano» e la strada dell’imprevedibile diventa il terreno battuto da questo ensemble che procede a colpi di post-bop tagliente. «Go» è una ballata, dall’atmosfera arcana, che riporta alla mente il clima immaginifico di «Speak No Evil».

L’inizio, affidato al piano e al flauto, risulta alquanto ipnotico, sviluppandosi sotto gli influssi di un’aura quasi maliarda. Le composizioni di Shorter, così come il contributo solitario di Spaulding, con «Kryptonite» propongono temi forti e conducono in un territorio inesplorato, lanciando costantemente il guanto di sfida ai musicisti e sottoponendo l’ascoltatore ad una fuga oltre il limite dell’immaginario jazzistico. Non siamo ancora off limits: il racconto sonoro avviene con precisione calcolata e nel rispetto delle regole melodico-armoniche. La title-track «Schizophrenia» presidia un’ideale linea maginot, situata tra post-bop e free jazz, ma lo fa con una robusta armatura hard bop, pur essendo consapevole di ciò che andava sviluppandosi e consumandosi oltre la linea di confine. Nel giro di pochi anni, lo stesso Shorter avrebbe oltrepassato quella linea, ma già «Schizophrenia» aveva aperto un varco ed abbattuto alcuni steccati: presto anime diverse si sarebbero mescolate irrimediabilmente.

Wayne Shorter fu assai determinante per il mondo del jazz moderno a partire dal 1960, come messo in risalto nella biografia del sassofonista: «Anche se alcuni discuteranno se il principale impatto di Wayne Shorter sul jazz sia stato come compositore o sassofonista, quasi nessuno contesterà la sua importanza complessiva come una delle figure di spicco in un lungo lasso di tempo. Sebbene in gran parte dovuto a John Coltrane, con cui aveva praticato a metà degli anni ’50 mentre era ancora uno studente universitario, Shorter alla fine ha sviluppato il suo modulo espressivo e la sua sintesi personale sul sax tenore, mantenendo la qualità e l’intensità del tono duro, ma aggiungendo, negli anni successivi, un elemento di funk. Alle prese con il sax soprano Shorter dimostra di essere un musicista completamente diverso, il suo tono adorabile vola leggero come una piuma, la sua sensibilità è in sintonia con i pensieri lirici, la scelta di note e temi da sviluppare diventa sempre più equilibrata, mentre la sua carriera si dispiega. L’influenza di Shorter come musicista, sull’onda lunga dei successi degli anni ’60 e ’70, è stata straordinaria sulla ciurma neo-bop emersa all’inizio degli anni ’80, in particolare su Branford Marsalis. In qualità di compositore, è noto per i numerosi brani attentamente elaborati, complessi, lunghi e sinuosi, molti di quali sono diventati standard per il jazz. Pochi sono stati in grado di imitarlo».

Ad esempio «Playground», è un brano che elargisce nozioni brevi di ciò il free jazz può o potrebbe essere: una composizione complessa e imprevedibile, che non dimostra solo quanto talento questo gruppo potesse esprimere, ma anche un divorante e complice desiderio di evidenziarlo, misurandosi su temi diversi e più innovativi. Gli assoli corposi e vibranti di Shorter si abbinano a turno a quelli di Fuller e Spaulding, mentre la sezione ritmica, oltrepassa il guado ed entra nel territorio dell’avanguardia per una razzia: Hancock, Carter e Chambers sembra che abbiano passato più tempo della loro vita suonando fuori dagli schemi e dagli standard dal jazz moderno, che non a presidiarne i confini. «Miyako» si dipana lenta e lunare tra perfette e comprensibili melodie di apertura e chiusura con un sapore post bop, quasi fusion ante-litteram, dallo spirito vagamente libero, ma con quella componente soul che ha sempre caratterizzato gran parte del suono classico della Blue Note.

Ascoltandolo accuratamente in retrospettiva, «Schizophrenia» non suona tipo un «altrove», un «fuori dal seminato» o un «oltre il recinto», come potrebbero aver creduto gli ascoltatori, condizionati da certa critica, quando fu pubblicato nel 1967, ma si qualifica come il lavoro di un maestro di cerimonie all’apice dei suoi poteri creativi, sia in veste di esecutore che di compositore, con la complicità di un manipolo di talentuosi musicisti dalla mentalità affine, entusiasti di imbarcarsi su questo volo verso il futuro. «Schizophrenia» è un classico sottovalutato e trascurato relativo alle registrazioni di Shorter del primo periodo come band-leader; per nulla complicato, bastano due attenti ascolti per penetrarne l’humus creativo e l’impianto sonoro, mentre lo spirito di John Coltrane sorvola l’ambiente circostante con ghigno beffardo e divertito.

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