// di Francesco Cataldo Verrina //

Quando nel Dicembre 1958, «Candy» venne dato alle stampe, il verdetto di Billboard fu abbastanza elusivo: «Dovrebbe piacere agli appassionati di jazz moderno». Nat Hentoff definiva Lee Morgan come «vivace, impettito e pieno di fiducia (…) dotato di una tecnica formidabile, trascinata dagli ardori giovanili e basata su accorgimenti stilistici che aggiungevano potenza e slancio (…) una tecnica a mezza valvola capace di spremere le note attraverso fraseggi staccati, al fine di mantenere la tensione sempre viva e carica in ogni assolo». Herb Wong scriveva di lui: «Ovunque soffi il vento del jazz, troverete Lee Morgan che soffia e swinga con un entusiasmo senza sosta, temperato da un superbo controllo. Aggiungete a questo, alcuni altre fondamenti caratteristiche del trombettista, come il buon gusto e la percezione del bello, e avrete indizi certi sul suo potere carismatico».

Lee Morgan, già presente in cinque album della Blue Note, quando alla fine del 1957 iniziò a registrare «Candy», aveva solo diciannove anni. Nelle varie occasioni era sempre stato affiancato da altri strumenti a fiato. Questo fu il primo set in cui Morgan registrò in quartetto, dove la sua tromba venne supportata dal trio del pianista Sonny Clark, con Doug Watkins al basso e Art Taylor alla batteria. Non essendoci altri solisti in prima linea, tutti i riflettori sono puntati sul trombettista che diventa la voce principale, disponendo di un ampio spazio per estendersi e scandire le melodie in maniera dettagliata ed espressiva, ma soprattutto di mettere in evidenza il meglio del campionario hard bop acquisito fino a quel momento. L’album è concepito con un’alternanza millimetrica di brani veloci e lenti. Questa doppia attitudine garantiva a Lee Morgan un posto di tutto rispetto in una cerchia ristretta di giovani trombettisti emergenti. Dovettero passare almeno cinque anni, e siamo nel 1963, perché il trombettista lasciasse un segno nella storia, non solo per qualità ma anche per quantità, «The Sidewinder» del 1963 diede a Morgan le stimmate di esecutore sangue caldo, in grado di privilegiare di più gli aspetti ritmici rispetto a quelli melodici, caratterizzandosi attraverso una vena funkified e soulful, tesa ad uno sviluppo sonoro fatto di note potenti, ma sempre di grana fine ed elegante.

Fu proprio con «Candy» che Lee indossò l’armatura di Clifford Brown, divenendone il vero ed unico erede, colui che avrebbe continuato a fondere gli assunti basilari del bebop con armonie e melodie più contemporanee, influenze latine, divenendo perfino un tessitore di intricate trame modali. Invece di emulare semplicemente il modulo espressivo dei vecchi trombettisti, il giovane Lee ne studiò il fraseggio e le regole d’ingaggio, per poi forgiare il proprio timbro ed il proprio brand. Registrato al Rudy Van Gelder Studio l’8 novembre 1957 ed il 2 febbraio 1958, «Candy» è composto interamente da standard, combinando ballate struggenti e liriche con melodie veloci e scattanti; un efficace trampolino di lancio sia per gli inventivi assoli di Morgan che per il contagioso supporto ritmico del Sonny Clark Trio. In verità, «Candy» è una matrioska, quasi come se dentro un disco di Lee Morgan ci fosse un lavoro di Sonny Clark, dal quale, a sua volta, saltasse fuori un album di Doug Watkins, al cui interno ci fosse incastrato un set di Art Taylor. L’assunto della bambola russa ad incastro trova corrispondenza e piena conferma nella title-track, «Candy», usata come opener, dove Morgan parte in picchiata tra swing e soul, sotto la guida di un oculato Sonny Clark al piano, il quale gli indica la strada da seguire. Dal canto loro, Doug Watkins al contrabbasso ed Art Taylor alla batteria diventano la bussola per non perdere mai la rotta, fornendo un coordinato ritmico organico e propedeutico alle finalità del provetto band-leader. Questo è solo un primo aspetto della duplicità espressiva di Morgan che dimostra di assere anche un eccelso balladeer capace di dipanare un tema, penetrarlo in profondità fino al nucleo centrale tirandone fuori l’anima ed il midollo. Con «Since I Fell For You» si spalancano le porte del sublime alle terrene emozioni. Nel costrutto sonoro si avvertono già tutti i prodromi di quelli che saranno opere più mature come «Search For The New Land» (1964) e «Cornbread» (1965).

«C.T.A»., giocato su un tempo veloce è uno standard bop di Jimmy Heath. Inserito per la prima volta da Miles Davis nel suo disco Blue Note del 1953, «Miles Davis Vol. 2». Per l’occasione, Davis affermò di conoscere il significato del titolo di quel brano, che aveva come soggetto le parti più attrattive del corpo di una donna. Ne esiste un’altra versione realizzata da Red Garland e John Coltrane, ma l’interpretazione esuberante e sicura di Lee Morgan le supera di una spanna. La sua revisione contiene una serie di idee non convenzionali, un fraseggio fluido e, soprattutto, una notevole dose di feeling supportato dall’incisivo groove della retroguardia e da un Sonny Clark che ci mette un carico da undici con una valanga di invenzioni armoniche. A seguire «All The Way», uno standard di Cahn-Van Heusen da sempre associato a Frank Sinatra, in cui la tromba di Morgan riesce ad avvicinarsi alla perfezione della voce umana: un privilegio alla portata solo di pochi eletti. Vertiginosamente coinvolgente «Who Do You Love I Hope», una di quei temi vaporosi e fragili, capci di elevare la tensione superficiale delle emozioni. «Personality» è un altro classico a firma Van Heusen, giocato su un’intrigante mid-tempo.

Alla fine del 1958 Morgan si unì ai Jazz Messengers di Art Blakey. Durante gli anni di vicinanza al decano dei batteristi (1958-61), il trombettista apportò gli ultimi ritocchi al suo stile, trasformandosi rapidamente in una superstar dell’hard bop. L’umore generale di «Candy» è relativamente spensierato, gioioso e oscillante. Morgan non contribuì alla stesura dell’album, ma fu solo il sopraffino interprete una serie di standard, proposti con leggerezza giovanilistica, senza la pretesa di rivoluzionare la storia del jazz, ma con una maturità ed un controllo del set presente in pochi altri dischi dello stesso periodo. L’unica nota stonata del disco è senza dubbio la copertina, una delle più brutte della storia della Blue Note, con barattoli e contenitori di caramelle varie, tanto da renderla infantile e didascalica. Consiglio l’edizione Jazz Images con un superbo art-work getefold ricavato da alcune istantanee di Jean Pierre Leloir.

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