// di Francesco Cataldo Verrina //

Nell’arco della storia del jazz ci sono varie fasi evolutive dell’improvvisazione che nasce come fenomeno collettivo e polifonico. Incanalata, dapprima, nelle avvolgenti sonorità delle Big Band, sarà, progressivamente, finalizzata a dare risalto al solista. Nel periodo che va dal 1917, anno ufficiale della prima registrazione conosciuta, sino alla metà degli anni Cinquanta, la sezione ritmica funzionò, in massima parte, come mero accompagnamento limitandosi a scandire il ritmo dei brani e rilasciando, a intermittenza, piccoli intervalli che fungevano perlopiù da spartiacque fra i vari strumenti di prima linea. L’evoluzione fu graduale, mentre non tutte le sezioni ritmiche si comportavano alla stessa maniera: generalmente, nei combo di quattro o più elementi era sempre il pianoforte che svolgeva la doppia funzione dominante di tipo ritmico-armonico, alternandosi spesso sul front-line con uno o più strumenti a fiato e stabilendo con essi le variabili contrappuntistiche. Il 25 giugno 1961, però, Bill Evans, Scott LaFaro e Paul Motian decretarono la nascita di quello che potremmo definire «piano trio dinamico» realizzando uno dei dischi più convincenti e seminali di tutti i tempi e superando quelle erano state le regole d’ingaggio del vecchio modello di jazz per pianoforte con accompagnamento.

A tal proposito, risulta assai interessante il punto di vista di Miroslav Vitous: «Una volta sentito, per me, Scott LaFaro è diventato la più grande ispirazione, l’icona della mia vita artistica: il suo talento era fenomenale». Miroslav prosegue anche su alcune considerazioni tecniche: «Questo ci porta a dire un’altra cosa sul jazz che, in origine, non è così libero come si pensa, perché esistevano dei limiti dettati dai ruoli: la funzione del basso e della batteria, il pianoforte che suonava l’armonia e così via, quindi gli strumenti solisti comparivano secondo uno schema abituale. Fin ad un certo punto della storia, questo era il modello tipico del jazz. Ma nel Bill Evans Trio esisteva una conversazione diretta. Poi lo fece anche Miles e noi continuammo con i Weather Report, nei quali il bassista non suonava come un bassista tradizionale, ma alla pari di qualsiasi altro strumentista. Il motivo principale per cui il suono dei Weather Report risultava così nuovo, era dato dal fatto che il basso suonasse come un sassofono o una tromba».

Il pensiero di Paul Motian conferma talune tesi: «Quando Evans costituì il nostro piccolo ensemble sulla base dei concerti dal vivo tenuti al Basin Street East, l’intenzione era quella di giungere ad un’esperienza completamente interattiva e dinamica del piano trio. Un pensiero, all’epoca, del tutto inconcepibile, in quando gran parte delle formazioni erano concepite per mettere in mostra la bravura del solista in prima linea, in special modo nel piano trio». L’incontro sinergico fra questi tre musicisti, in un set domenicale registrato dal vivo, diede nuova dignità alla terna pianistica, che sulla scorta dell’esperienza di Evans-LaFaro-Motian divenne uno delle modalità più praticate nell’ambito del post-bop e derivati, fino ai giorni nostri. Fissato su nastro nel corso di una lunga maratona al Village Vanguard, il disco emana un’atmosfera singolare, con bicchieri che tintinnano e chiacchiere di sottofondo, ma l’esecuzione è semplicemente da case-study. I tre sodali denotano una netta padronanza del proprio strumento e, messi insieme ed apparentemente senza sforzo, riescono a creare quell’alchimia sciamanica che nel jazz raramente raggiunge la pura perfezione. Con il solo pianoforte, contrabbasso e batteria, questo album, nonostante (o forse proprio per) il suo minimalismo, divenne uno dei capolavori annoverati fra i Top 100 del jazz di tutte le epoche. Le parole di Miroslav Vitous sono alquanto esaustive in Proposito: «Altrettanto importante era la comunicazione che il gruppo riusciva ad esprimere: una vera e propria conversazione, ma non il dialogo che si otteneva in un normale gruppo jazz, dove si suonano i cambi e si produce quella che io chiamo conversazione laterale attraverso un punto distante: loro furono i primi ad implementare una conversazione diretta».

L’affiatamento che univa il trio Evans-LaFaro-Motian si era già evidenziata in alcuni lavori precedenti («Portrait In Jazz» e «Explorations»), ma si rafforzò nell’esibizione al Village Vanguard, divenendo un paradigma ispirativo per tanti jazzisti venuti dopo. Purtroppo su questo album grava l’ombra della tragedia. Il bassista Scott LaFaro morirà, a soli 25 anni, in un incidente d’auto appena dieci giorni dopo la partecipazione al set. Le registrazioni del Vanguard saranno nel corso degli anni, e nelle varie edizioni, una sorta di commemorazione costante del contrabbassista: molti dei brani eseguiti erano stati composti da LaFaro o presentano un assolo di basso quale elemento focale e determinante. E non potrebbe esserci modo migliore per ricordarlo, perché le varie performance rappresentano una perfetta dimostrazione del suo virtuosismo. Ogni assolo è avvincente e frutto di un talento eccelso. Inconsapevole del proprio beffardo destino, in un solo giorno di esibizioni, il giovane musicista italo-americano conquistò un posto di rilievo fra i grandi bassisti del XX secolo. Senza sminuire gli altri due sodali, si potrebbe affermare che il vero fulcro di queste registrazioni sia stato lui, almeno senza LaFaro sarebbero state una cosa altra; sicuramente il triunvirato non avrebbe scalato talune vette d’eccellenza esecutiva.

«Sunday At The Village Vanguard» si sostanzia come un album in cui il modo di concepire la funzione del contrabbassista e del batterista approda a un’inedita dimensione, soppiantando il ruolo secondario, svolto da essi in passato, attraverso un protagonismo cronico, dinamico e interattivo. Dopo alcuni tentativi precedenti, senza molto successo, Evans trovò nei due alleati il propellente per materializzare le sue idee estetiche e generare un paradigma rivoluzionario di «orizzontalità» compositiva ed esecutiva. Nel concerto del Vanguard, il trio mise in atto un modo ingegnoso di interagire, grazie ad una modalità quasi simbiotica di intendere il vernacolo jazzistico e grazie ad un scambio costante dove l’implemento delle tematiche melodico-ritmico-armoniche veniva reciprocamente suggerito, destrutturato e rimodellato con sinergica congruenza. «Sunday At The Village Vanguard diviene, per tanto, una lectio magistralis di creatività, improvvisazione e interazione; un’esposizione di palpitante lirismo ed un’applicazione metodologica, forse, mai adottata prima con tale profondità ed eloquenza.

Indicare un composizione specifica come punta di diamante dell’album risulta alquanto difficile, poiché l’intero set va interpretato come un insieme coeso, un vero concept, piuttosto che alla stregua di una mera collezione di brani separati. Distinguere un componimento dall’altro durante l’ascolto è un po’ difficile, perché il disco, a parte gli applausi che fanno da intermezzo, scorre senza attrito alcuno, al punto da sembrare una jam session prolungata. Naturalmente, i singoli brani posseggono tutti un imbastitura ed un taglio ben preciso, ma sono uniti da un solido collante rappresentato dal pianoforte di Bill Evans. L’opener, «Gloria’s Step», a firma LaFaro, è adagiato su una progressione pianistica che naviga in acque distese e tranquille, mentre il basso di Scott sembra suggerire la rotta attraverso un movimento costante e ricco di variazioni accordali. Prima che il contrabbassista ed il pianista-leader stabiliscano una relazione armonica e contrappuntistica, l’ambientazione risulta alquanto ariosa e locupletata in retroguardia dal rullante di Motian, nonché dalle rapide interlocuzioni tra le note singole ed i vibranti accordi di LaFaro. «My Man’s Gone Now», da «Porgy e Bess», è una ballata scritta da Gershwin, brunita e malinconica ma, per contro, ravvivata dal deciso incedere del pianoforte e dalla creativa improvvisazione del contrabbasso, equilibrato e mercuriale nell’approccio. Mentre le spazzole di Motian sussurrano a contatto i piatti, Evans e LaFaro entrano in un dialogo in tono minore dalle tinte scure, in un rapporto simbiotico e reiterato senza soluzione di continuità. «Solar» di Miles Davis suggella la prima facciata dell’album, attraverso un battibecco diretto e perpetuo, senza pause o aria ferma, bypassando quella che Miroslav Vitous chiamava «conversazione laterale e distante». In questa traccia lo stesso Motian sembra entrare di più in partita, mentre trasversalità, contrappunto e modalismo s’intersecano in una miscela di nuova estetica post-bop nodosa e insistente.

La B-Side si apre con «Alice In Wonderland», uno standard rimodellato dal trio a propria immagine e somiglianza, dove Evans si allontana ancora dalle trame di influenza classica, dipingendo con vivacità i colori armonici e spingendosi oltre i confini ritmici. LaFaro suona in modo leggero e sopra le righe, in maniera virtuosistica, facendo le fusa con ritmo erogato da Motian. A seguire, la classica «All Of You» di Cole Porter, dove Motian diventa più assertivo con i suoi accenti finalizzati ad incorniciare il contrappunto di Evans e LaFaro. Infine, «Jade Visions», tirata sempre fuori dal cilindro di Scott LaFaro, è un brano davvero struggente e crepuscolare, che trova il suo break-even-point proprio nel suo essere volutamente essenziale e minimalista. La tragica scomparsa di Scott LaFaro gettò Evans nello sconforto più totale, al punto da concedersi una lunga pausa prima di formare un nuovo piano trio. Il materiale registrato durante il set e rimasto fuori, nello stesso anno, andò a costituire una altro album epocale, «Waltz For Debby», che oltre ad essere sostanzialmente una vetrina per il pianismo raffinato ed arioso di Evans, in gran parte, divenne un omaggio ad imperitura memoria al genio e al contributo di Scott LaFaro.

Bill Evans, Scott LaFaro e Paul Motian

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