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Ramberto Ciammarughi

Il suo pianismo si differenzia per un’attitudine ad annodare la libertà dell’improvvisazione con la precisione della scrittura, generando habitat sonori che puntano alla risonanza poetica. muovendosi nel fluire di una jazz dilatato che non distingue tra generi, ma che li attraversa secondo logiche personali e non canoniche, quale contrassegno di una prospettiva multiculturale ed espansiva. Ciammarughi, con le sue incursioni nel teatro, nella filosofia e nell’arte figurativa, ha delineato una regola d’ingaggio che fa del pianoforte uno spazio di riflessione e di sintesi.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Ramberto Ciammarughi rappresenta una delle figure più inquiete e musicalmente eloquenti del panorama sonoro italiano contemporaneo. Originario di Assisi, la sua traiettoria artistica si dirama secondo un ordine interno che coniuga rigore formale e libertà espressiva, delineando un profilo compositivo che sfugge a ogni classificazione rigida. La sua formazione, nutrita da esperienze eterogenee e da una frequentazione costante con le grammatiche del jazz, della musica colta e della scrittura scenica, ha generato un linguaggio che trasfigura gli stilemi e matalinguaggi sonori in un codice personale cumulativo e teso alla ricezione.

Fin dagli esordi nei primi anni ’80, il pianista assisiate ha evidenziato una tendenza spiccata per la modulazione del discorso musicale, alternando episodi di piano solo a geometrie timbriche in trio, e partecipando a rassegne jazzistiche di rilievo.. La capacità di interfacciarsi con musicisti di diversa provenienza, da Randy Brecker a Billy Cobham, da Steve Grossman a Dee Dee Bridgewater, sancisce una versatilità che non si risolve in mera adattabilità, ma in una profonda consapevolezza delle dinamiche interpersonali ed armoniche che regolano l’interazione strumentale. Nel 2004, la sua presenza nel quartetto di Miroslav Vitous, accanto a Bob Mintzer, Adam Nussbaum e Danny Gottlieb, non costituisce soltanto un riconoscimento internazionale, ma anche un’occasione per far affiorare una scrittura pianistica che si sposta nel solco della tradizione europea, pur mantenendo una tensione costante verso l’improvvisazione. Il suo pianismo plasma, modella e reinventa l’iperbole tematica, facendo leva su una tecnica raffinata e su una sensibilità armonica che si nutre di contrappunto, di modulazioni inattese e di velature acustiche. Parallelamente all’attività concertistica, Ramberto ha sviluppato un corpus compositivo destinato al teatro e alle arti visive, collaborando con figure come Vittorio Pirrotta, Eugenio Allegri e Bruno Tommaso. Le musiche per le «Eumenidi», presentate alla Biennale di Venezia nel 2004, rivelano una partitura che si connota per la capacità di fondere la teatralità scenico con la trama sonora, lasciando germinare un’aura fonica che struttura lo spazio drammaturgico. In tali contesti, Ciammarughi agisce come regista armonico, disegnatore di spazi acustici, capace di far dialogare la parola con la fisionomia del suono. La sua discografia, avviata nel 1985, include collaborazioni con Furio di Castri, Mia Martini, Roberto Gatto, Umberto Fiorentino e Luigi Ferrara. Ogni pagina musicale si distingue per un impianto compositivo che non indulge in soluzioni convenzionali, ma opta sistematicamente per una sintesi tra scrittura ed invenzione. Progetti come «Una Lauda per Francesco», con la voce narrante di Allegri ed il recital per solo piano dedicato alla musica per il cinema, fanno emergere un artista cinetico, dotato di una visione che trascende il repertorio per interrogare il senso stesso del fare musica. Per Ciammarughi, il pianoforte è organismo vivente ed luogo di analisi e di sintesi.

Nel tracciato espressivo di Ramberto Ciammarughi si avverte una profonda assimilazione delle istanze pianistiche emerse nel secondo dopoguerra, non come scontata adesione stilistica. La sua regola d’ingaggio, tanto nell’improvvisazione quanto nella composizione, si colloca in una dimensione dialettica con le figure che hanno ridefinito il ruolo del pianoforte nel contesto jazzistico e contemporaneo, pur evitando ogni citazione diretta o manierismo. Sulla scorta di autori come Paul Bley, Andrew Hill e Mal Waldron, il musicista umbro secerne un linguaggio che si affida alla ricchezza del pensiero armonico e all’abilità nel realizzare spazi acustici in cui il silenzio diventa parte integrante del discorso. Come Bley, tende alla rarefazione ed alla geometria timbrica che privilegia l’attesa e l’ambiguità modale. Tuttavia, laddove Bley si dimena in un territorio di astrazione quasi ascetica, Ciammarughi conserva una tensione lirica che lo avvicina piuttosto a certi tratti di Bill Evans, pur evitando il canone della strutturazione accordale tout court. La fisionomia sonora mostra affinità anche con il pianismo europeo post-seriale, in particolare con le perlustrazioni di György Kurtág e Luciano Berio, per la capacità di far affiorare micro-eventi timbrici e di tessere trame espressive che si caratterizzano per accumulo e sottrazione. In tal senso, Ramberto fissa un telaio compositivo che attinge alle tensioni formali ad una consapevolezza estetica che lo distingue da molti suoi contemporanei. Rispetto a Keith Jarrett, con cui condivide la libertà dell’improvvisazione e l’uso del pianoforte come veicolo di narrazione estesa, il musicista assisiate si differenzia per una maggiore sobrietà retorica e per una scrittura che rifugge l’enfasi.

Il confronto tra Ramberto Ciammarughi e Lennie Tristano richiede una lettura che non si limiti alla superficie stilistica, ma che indaghi le logiche interne del loro pianismo, le intelaiature accordali, le posture estetiche e le visioni del suono come mirroring del pensiero. Lennie Tristano ha inaugurato una grammatica radicale, sorretta da una concezione del jazz come linguaggio autosufficiente, capace di generare senso mediante la combinazione di elementi linguistici ed improvvisativi. Il suo pianismo si distingue per una costruzione contrappuntistica rigorosa, per l’uso di poliritmie, metriche scalari e per una declinazione che si estrinseca su più piani simultanei. Tristano non mirava all’ottenimento l’effetto alla profondità del disegno. La sua musica si staglia in una zona di astrazione, dove ogni nota è funzionale, divenendo forma e sostanza. Ramberto, pur non appartenendo alla stessa genealogia idiomatica, mostra una sensibilità affine per quanto riguarda la costruzione modulare del discorso musicale. Il suo impianto armonico attiene ad una mobilità interna che predilige la sospensione, la metamorfosi e la stratificazione timbrica. Il pianoforte agisce come spazio di risonanza, come luogo in cui la scrittura e l’invenzione si amalgamano, tendendo alla ricchezza espressiva. Come Tristano. La divergenza più evidente risiede nella postura estetica. Tristano si colloca in una dimensione quasi ascetica, dove l’elaborazione della trama prevale sull’effetto, dove l’improvvisazione diviene esercizio di rigore. L’artista umbro, al contrario, conserva una tensione lirica, una propensione poetica che si nutre di colore, di velatura e di evocazione. Il suo pianismo non si esalta nella formalità, ma la apre alla voce ed alla relazione con le altre arti. In modi differenti, essi rifiutano la retorica del virtuosismo e la spettacolarizzazione esibizionistica. Entrambi tracciano un iter sonoro che pensa e respira. Tristano lo fa mediante una grammatica severa, Ciammarughi mediante una sintassi fluida. Nel gesto di Ramberto che interpreta «Lennie’s Pennies» si avverte non una citazione, ma una risonanza, ossia la volontà di far dialogare due visioni, di far affiorare una parentela profonda, di costruire un ponte tra rigore e poesia, tra struttura e canto.

Ramberto Ciammarughi

La relazione tra Ramberto Ciammarughi e Chick Corea non si risolve in una semplice sovrapposizione stilistica, ma innesca un ragionamento più ampio sul ruolo del pianoforte come strumento di sintesi tra composizione, improvvisazione e visione musicale. Entrambi, pur agendo in situazioni differenti per storia e traiettoria, hanno in comune una tensione verso una gestualità sonora totalizzante, vale dire una concezione del pianismo che non si limita alla tecnica. Chick Corea, figura cardine della stagione post-bop e della rivoluzione elettrica degli anni ’70, ha delineato un profilo compositivo che fagocita influenze latine, strutture modali e di una brillantezza ritmica che trova nel gruppo «Return to Forever» una delle sue espressioni più compiute. La sua partitura, spesso incrementata su cellule tematiche brevi e su un uso estensivo della ripetizione variata, si estrinseca secondo una metodologia di espansione e contrazione, dove il pianoforte agisce come propulsore ritmico e come tessitore di trame armoniche. Il tocco, fluido e percussivo, rimanda a una visione del suono come energia, come impulso comunicativo, come atteggiamento scenico. Il musicista umbro, pur non appartenendo alla stessa generazione né allo stesso contesto idiomatico, mostra una sensibilità affine per quanto riguarda il modularismo costruttivo. Tuttavia, laddove il pianista italo-americano tende ad una spettacolarizzazione della performance, Ciammarughi preferisce una figurazione più raccolta, più interiorizzata, in cui l’inquietudine interiore non si manifesta in esplosioni dinamiche, bensì in equilibri instabili ed in velature acustiche. Il suo pianismo si differenzia per un’attitudine ad annodare la libertà dell’improvvisazione con la precisione della scrittura, generando habitat sonori che puntano alla risonanza poetica. Entrambi, in modi diversi, si muovono nel fluire di una jazz dilatato che non distingue tra generi, ma che li attraversa secondo logiche personali e non canoniche, quale contrassegno di una prospettiva multiculturale ed espansiva; Ciammarughi, con le sue incursioni nel teatro, nella filosofia e nell’arte figurativa, ha delineato una regola d’ingaggio che fa del pianoforte uno spazio di riflessione e di sintesi. Il dialogo ideale tra Ramberto e Chick non si sorregge su somiglianze superficiali, ma piuttosto su una simile attitudine alla totalità, come linguaggio che trascende il repertorio e l’ingabbiamento in uno specifico stile.

Il pianista assisiate non si limita a citare o a rifarsi alla tradizione eurocolta, il credo pianistico si dipana in seno ad una sensibilità che assorbe, metabolizza e trasforma le grammatiche del secondo Novecento europeo. Il pianoforte non si pone mai in posizione ancillare rispetto alla grande scuola compositiva, ne ne rielabora le tensioni interne, le logiche formali e le implicazioni timbriche, generando un codice espressivo che si colloca al crocevia tra invenzione ed il carotaggio esplorativo. L’affinità con autori come György Kurtág, Henri Dutilleux e Luciano Berio si manifesta nella volontà di far emergere micro-eventi sonori, di costruire ambienti acustici in cui la densità non è mai sovraccarico. Come Kurtág, Rambaerto lavora sulla brevità come forma di intensità, sulla rarefazione come spazio di pensiero. Alla stregua di Dutilleux, predilige una perifrasi che procede per metamorfosi, stratificazione timbrica e variazione interna; così come come Berio, concepisce il pianoforte come luogo di dialogo tra estetica e contenuto, tra memoria e creatività. Rispetto al pianismo di Pierre Boulez, egli si distanzia per una maggiore apertura lirica e per una minore rigidità sistemica. La sua musica non si fonda su principi seriali, ma una razionalità armonica che, pur non rinunciando alla complessità, conserva un afflato poetico e una scorrevolezza narrativa. In tal senso, si avvicina piuttosto alla visione di Alexander Lonquich, con cui condivide una concezione del suono come spazio da abitare, adattare e sondare. La divergenza più evidente rispetto alla tradizione eurocolta risiede nella sua volontà di non separare il gesto compositivo da quello performativo. Ciammarughi non scrive per essere eseguito, ma pensa mentre suona, compone mentre improvvisa, lungi dall’idea d un pianoforte adibito alla semplice illustrazione.

Nel panorama pianistico italiano, tra le figure con cui si può stabilire una consonanza profonda, Stefano Battaglia emerge per affinità di visione e di impianto compositivo. Entrambi concepiscono il pianoforte come spazio di pensiero, come luogo in cui la scrittura e l’improvvisazione non si oppongono, bensì si fondono in un ordine interno che privilegia l’opulenza poetica e la riflessione formale. Tuttavia, laddove Battaglia tende a una rarefazione quasi ascetica, Ciammarughi conserva una tensione narrativa più fluida ed una disposizione al lirismo che si nutre di gestualità e di colore. Altro riferimento significativo è Rita Marcotulli, con cui condivide una sensibilità timbrica e una innato desiderio di far dialogare la musica con altre arti, in particolare il cinema. Entrambi mostrano una scrittura che si sviluppa per evocazione, per allusione e per velature acustiche, ma Ciammarughi si distingue per una maggiore strutturazione armonica e per una visione più architettonica del discorso musicale. Franco D’Andrea rappresenta un ulteriore punto di confronto, soprattutto per la padronanza tecnica e per la versatilità nel reinventare il repertorio jazzistico attraverso una sintassi personale. Tuttavia, mentre Franco tende a una scomposizione ritmica e ad una sperimentazione formale che sfiora l’astrazione, Ramberto mantiene una coerenza narrativa più marcata, una tensione melodica che non si dissolve mai completamente. Enrico Pieranunzi, pur appartenendo ad un lineage più prossimo al jazz americano, offre spunti di confronto per la qualità del tocco, per l’implementazione armonica e per l’attitudine a far affiorare una cantabilità che non indulge mai nel sentimentalismo. Ciammarughi, rispetto a Pieranunzi, mostra una maggiore apertura verso la musica eurocolta e una più accentuata propensione interdisciplinare, che lo porta ad interagire con il teatro, la filosofia e l’arte figurativa. Il musicista umbro s’incunea nel tessuto di una tradizione pianistica italiana che ha saputo crogiolare rigore formale e libertà espressiva. Le affinità con Battaglia, Marcotulli, D’Andrea e Pieranunzi non si risolvono in somiglianze stilistiche, ma in una comune tensione verso un jazz che opera costantemente sotto i lumi della ragione, senza perdere il contato con l’emotività.

Luca Flores, figura tragica e luminosa, ha incarnato una visione del pianoforte come estensione diretta dell’anima, come luogo di vulnerabilità e di rivelazione. Il suo tocco, nervoso e febbrile, non cercava l’urgenza del dire e la necessità del gesto. In lui, la musica si accendeva nel momento, nel respiro e nel dolore. La sua scrittura, spesso frammentaria ed in bilico, si nutriva di una cantabilità interrotta, di una tensione emotiva che non trovava mai piena risoluzione. Il pianoforte diventava così corpo, ferita e confessione. Ciammarughi, pur condividendo con Flores una profonda sensibilità e una visione totalizzante del fare musica, si muove secondo una ratio più strutturata, più consapevole delle geometrie interne e delle implicazioni formali. Il suo pianismo, tecnicamente raffinato ed armonicamente articolato, non rinuncia all’emozione, ma la incanala in una regolarità che ne amplifica la risonanza. Dove Luca brucia, Ramberto scolpisce; dove l’uno si abbandona, l’altro costruisce; dove il primo cerca la verità nel frammento, il secondo la plasma nella forma. Entrambi, tuttavia, si sottraggono alla retorica del virtuosismo, preferendo una prassi esecutiva che vibra e si fa voce. In Flores, l’improvvisazione è urlo, slancio e vertigine; in Ciammarughi, diventa riflessione, dialogo ed architettura. Le divergenze non sono opposizioni, ma piuttosto manifestazioni di due modi di intendere il pianoforte come spazio espressivo: uno viscerale, l’altro contemplativo; uno incendiario, l’altro armonicamente eloquente. Il confronto tra i due musicisti non si risolve in una gerarchia, ma in una dialettica, ossia in due visioni, due gesti, due anime che, pur muovendosi in direzioni diverse, contribuiscono delineare una delle stagioni più intense e complesse del pianismo italiano contemporaneo.

L’impianto armonico di Ramberto si delinea secondo una prassi che rifugge la prevedibilità funzionale e si nutre di una frizione costante tra libertà e controllo, tra apertura modale ed impianto tonale. Il suo modus agendi non si limita a impiegare progressioni convenzionali, ma le trasfigura mediante sovrapposizioni, deviazioni e interpolazioni che decretano un habitat sonoro in cui ogni accordo diventa uno snodo emozionale. La grammatica accordale di Ciammarughi poggia su una mercuriale conoscenza della tradizione eurocolta, in particolare delle modulazioni cromatiche e delle ambiguità tonali che si ritrovano in autori come Debussy, Ravel e Dutilleux. Tuttavia, il suo impianto non si risolve in citazione o in stilema, bensì in una sintesi personale che fa leva su una varietà timbrica e su una mobilità interna del discorso. Gli accordi, spesso distillati per sovrapposizione di quarte o per estensione di triadi alterate, non presentano come zone di transizione o luoghi di passaggio in cui la tensione tende alla trasformazione. Talvolta l’armonia si sviluppa secondo una logica teatrale, in cui le voci, gli strumenti e le percussioni si innestano nel tessuto musicale mediante un gioco di incastri e di contrappunti che genera una polifonia mobile, fluida, in costante mutazione. Il pianoforte, in questo contesto, agisce come fulcro armonico, ma anche come spazio di risonanza, capace di accogliere e rilanciare le sollecitazioni provenienti dagli altri strumenti. Il pianista umbro impiega frequentemente accordi sospesi, non risolti, che si collocano in bilico tra tonalità e modalità, tra centro e periferia. La sua armonia è sempre strutturale, dove ogni scelta timbrica, intervallo o dissonanza diventa parte di un disegno che si avvalora nel tempo, secondo una logica narrativa e non meccanica. In tal senso, il suo portato accordale si avvicina a quello di certi compositori contemporanei come Arvo Pärt o Valentin Silvestrov, per la capacità di generare atmosfere rarefatte, ma formalmente sorvegliate. In definitiva, l’armonia di Ciammarughi non si compiace, ma si rivela nel dettaglio, sempre alle prese con una sintassi progressiva.

Cinque lavori emblematici del percorso armonico di Ramberto Ciammarughi delineano una grammatica sonora che si sviluppa nel tessuto di relazioni artistiche e suggestioni letterarie, generando un impianto compositivo che si espande in una visione interdisciplinare e poetica. «Intramontes» rappresenta il vertice di questa architettura. Il pianoforte agisce come fulcro armonico e come spazio di risonanza per un ensemble che include il Tetraktis Percussioni, il Vocalia Consort e l’Ensemble Novamusika. I testi di Dante, Shakespeare, Leopardi, Sofocle e Mario Luzi non fungono da semplice cornice, ma diventano materia sonora, innestata nel disegno musicale mediante un gioco di incastri e sovrapposizioni. L’armonia si articola per stratificazione, per metamorfosi e per interpolazione timbrica, generando un ambiente acustico che accoglie e trasfigura le voci, le percussioni e le linee melodiche in un mosaico espressivo. «What Colour For A Tale», realizzato con Furio Di Castri e Maurizio Giammarco, mostra una grammatica accordale che si fonda su deviazioni modali e su una mobilità interna del discorso. Il pianoforte plasma la forma, dando vita ad una narrazione che si evolve secondo una prassi di espansione e contrazione. Le relazioni tra i musicisti si costruiscono nella risposta e nella tensione condivisa, mentre l’armonia diventa luogo di incontro, di dialogo e di immersione emotiva. «Meditango», con Bruno Tommaso, rivela una partitura che si nutre di contrappunto e di ambiguità tonale. Il tango non viene riportato in auge come stile, ma come portante ritmica ed armonica da reinventare. Il musicista assisiate opera come tessitore di trame sonore, modulando le progressioni secondo logiche narrative. Il pianoforte si muove nell’alveo di una tradizione che include Piazzolla, ma la trasfigura mediante una grammatica che privilegia la sospensione, la velatura e la metamorfosi. «Ulisse», con Umberto Fiorentino, dispensa un impianto armonico che si sviluppa per sovrapposizione di quarte, per estensione di triadi alterate e per interpolazione modale. Il viaggio di Ulisse diventa metafora del percorso musicale, mentre l’armonia si estrinseca come spazio di navigazione, come mappa poetica e come disegno interiore. Le relazioni tra sodali si reggono su una tensione condivisa, su una ricerca comune, e su una visione estremamente fluida. «The Life Always», con Luigi Ferrara, mostra un modulo espressivo che si dirama per accumulo e sottrazione, per variazione interna e per metamorfosi timbrica. Il pianoforte agisce come regista armonico e come disegnatore di spazi acustici, mentre il sistema accordale diventa luogo di memoria, di invenzione, di indagine. Le suggestioni letterarie affiorano nella forma e nella costruzione modulare del discorso, dove la musica si fa pensiero, voce e visione. In ciascuno di questi lavori, il pianista costruisce organismi sonori in cui l’armonia, le interconnessioni strumentali e le suggestioni letterarie si fondono in un ordine pensante. Ogni nota è parola, qualunque accordo diventa frase, qualsiasi modulazione appare come gesto, tanto che nel fluire di questa grammatica, la musica diventa spazio poetico, luogo di incontro, architettura dell’anima.

Patrizia Bovi & Ramberto Ciammarughi

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