Paul_Cornish_-_You_re_Exaggerating

Cornish agisce costantemente con oculatezza e ponderatezza, quasi alla medesima stregua di un indagatore del suono, tanto che nel suo pianismo si avverte una tensione costante verso l’elaborazione di un linguaggio che sa essere voce, struttura e visione.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Paul Cornish cresce in un contesto sonoro intriso di spiritualità, ritmo e oralità, dove la chiesa battista di Houston oltre ad essere un luogo di culto, rappresenta anche un laboratorio musicale quotidiano. Fin dalla prima infanzia, il pianoforte diventa per lui uno strumento di espressione e di ascolto collettivo, immerso in un ambiente in cui la musica si respira, si vive e si tramanda. Le funzioni liturgiche, i cori, le improvvisazioni spontanee costituiscono una grammatica sonora che forma l’orecchio e la postura, ma soprattutto alimenta una sensibilità ritmica e armonica già predisposta alla complessità.

La sua formazione si consolida alla High School For The Performing And Visual Arts di Houston – la stessa frequentata da Robert Glasper – dove Cornish entra in contatto con una didattica strutturata, ma aperta alla sperimentazione. Successivamente, il percorso presso l’Herbie Hancock Institute Of Jazz presso UCLA gli consente di approfondire la scrittura jazzistica in tutte le sue declinazioni, con un’attenzione particolare alla costruzione formale ed alla relazione tra improvvisazione e composizione. I riferimenti che Cornish fa affiorare nel suo pianismo appartengono ad una genealogia postbellica che si divide fra tradizione e innovazione. Teddy Wilson e Jaki Byard delineano due poli complementari: da un lato la cantabilità swing, dall’altro la libertà compositiva e la tensione verso l’astrazione. Jason Moran, con la sua scrittura stratificata e la sua capacità di far dialogare idiomi differenti, rappresenta un modello evidente, non solo per la prossimità generazionale, ma per la visione del pianoforte come spazio narrativo e politico. Herbie Hancock e Chick Corea, soprattutto nei loro momenti più lirici e meditativi, offrono a Cornish una grammatica armonica che si nutre di sospensioni, di modulazioni e di una gestione del tempo che si fa gesto poetico. James Francies, con cui Cornish ha studiato, contribuisce a raffinare una sintassi che privilegia la mobilità, la rarefazione timbrica e limplementazione di ambienti sonori in cui il pianoforte diventa sempre voce interna, tessuto e riflesso. Cornish non si limita a citare o ad emulare, ma dispone di una versatilità che gli consente di rielaborare e trasformare i vissuti precedenti. Nel suo pianismo si avverte un’attitudine costante alla sintesi, dove il vernacolo afro-americano si fonde con una scrittura accordale che sa essere tanto rigorosa quanto immaginativa. Un ambiente sonoro che non lo ha soltanto formato, ma che continua a risuonare come memoria, come impulso e come metodo d’indagine.

Il suo debutto discografico con «You’re Exaggerating!» si presenta come una dichiarazione d’intenti, un affresco compositivo che riverbera una proiezione pianistica multistrato, interiormente variegata e tecnicamente raffinata. Le nove ambientazioni tematiche che compongono l’album delineano un percorso esecutivo dove il trio – completato da Joshua Crumbly al contrabbasso e Jonathan Pinson alla batteria – agisce come organismo unitario, abile nel generare un dimensione sonora coesa, mobile e ricettiva. Cornish porta con sé una grammatica musicale che affonda le radici nella tradizione afro-americana, ma che si apre ad una sintassi armonica audace, nutrita da deviazioni modali, interpolazioni ritmiche ed una gestione del colore sonoro che diventa filigrana poetica. Il pianismo, mai decorativo, si dipana sulla scorta di un una regola d’ingaggio che predilige la frizione interna, la rarefazione timbrica e l’implementazione di spazi acustici in cui il silenzio diventa funzionale alla narrazione. «DB Song» inaugura il percorso con un’interazione serrata tra basso e batteria, dove il centro tonale viene costantemente sfiorato, mentre il contrabbasso di Crumbly agisce come tessuto ritmico e fisionomia accordale.

«Queinxiety» si presenta come una pagina inquieta e frammentata, in cui la pulsazione si frantuma in cellule ritmiche che si rincorrono senza mai risolversi. «Star Is Born» si apre con una partitura che allude a certi stilemi neoclassici, ma che viene subito destabilizzata da un impeto espressivo febbrile, sostenuto da obbligati che si sovrappongono con precisione chirurgica. «Slow Song», per solo pianoforte, rivela la matrice lirica di Cornish, con una gestione del tempo che si dilata e si contrae secondo una sintassi che rimanda a James Francies, Jason Moran e certi momenti meditativi di Herbie Hancock. «5 AM» si muove in un ambiente sonoro rarefatto, dove il contrasto tra tensione e rilascio viene estrinsecato mediante incastri accordali e una metodologia che privilegia la sospensione e l’attesa. «Dinosaur Song» si configura come un labirinto ritmico, in cui il pianoforte si fa dispositivo polifonico ed il basso di Crumbly agisce come contrappunto mobile. «Palindrome», con la presenza di Jeff Parker alla chitarra, introduce una velatura blues che si conficca in un groove ondivago, evocando certi tratti espressivi monkiani senza mai indulgere in citazione. «Queen Geri», omaggio a Geri Allen, si sviluppa su un tempo dispari e su obbligati che rimandano ad una dimensione quasi orchestrale, con richiami al prog più strutturato ed a certi esperimenti ECM. «Modus Operandi» chiude il ciclo con una pagina che allude a Bach e a Vijay Iyer, dove la forma si fa riflessione e l’atto pianistico si dirama sulla scorta di in una trama espressiva che tende alla risonanza. Cornish agisce costantemente con oculatezza e ponderatezza, quasi alla medesima stregua di un indagatore del suono, tanto che nel suo pianismo si avverte una tensione costante verso l’elaborazione di un linguaggio che sa essere voce, struttura e visione.

Paul Cornish

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