Mandatory Credit: Photo by Peter Brooker/REX/Shutterstock (124150c) James Brown James Brown in concert, Wembley Arena, London, Britain - 1986

Morto per arresto cardiaco nella notte di Natale del 2006, secondo un’inchiesta, sollevata dalla CNN nel 2017 ed ancora sub iudice, sarebbe stato assassinato. Si suppone che sia stata una vendetta legata ad una certa Jacque Hollander, cantante e ballerina che aveva lavorato insieme a Brown negli anni ’80, e che sostiene di essere stata stuprata da lui nel 1998…(questa però è un’altra storia).

// di Francesco Cataldo Verrina //

James Brown è stato un personaggio trasversale fu uno degli artisti più amati dai fautori dell’hip-hop old school, così come da tutti coloro che negli anni precedenti avevano amato il soul, il funk e prodotto disco music. James Brown aveva sempre rappresentato l’epitome della potenza vocale e delle movenze corporee applicate al ballo, con il sostegno di una miscela sonora che affondava le radici nella profondità del blues, nel magma bollente del soul e nella rabbia sub-urbana del funk. Sarebbe riduttivo considerare il Signor Dinamite un artista dance, ma James Brown resta comunque la quintessenza del ballo in discoteca ed in qualsiasi altra location. Non esiste altro artista al mondo che abbia avuto tanti «campionamenti» o rifacimenti dei propri dischi. Non c’è DJ al mondo che non lo consideri una vera icona della dance music. Downbeat a proposito di James Brown scrisse che «forse esisteva qualcuno più bello o più bravo di lui, ma Brown sapeva creare il miglior show dal vivo, scatenando un’energia contagiosa: valeva davvero la pena spendere i soldi per andare a vederlo. Nulla da fare per tutti gli altri, il re era lui». Non si può dare torto a questi commenti, considerando le circa centocinquanta canzoni di successo, i quasi cento album e le trecento e rotte serate all’anno, attività che Brown ha condiviso fino a 78 anni, insieme agli impegni derivanti dalla sua catena di ristoranti e dalle sue apparizioni in radio, TV, spettacoli et similia.

Nato il 3 maggio 1933 nel South Carolina, sotto il segno del Toro, James Joseph Brown percorse in salita tutta la faticosa gavetta di «povero nero» fino a diventare «Mr. Dynamite», «Mr. Please, Please», incarnazione vivente dell’R&B, sacro mito della musica soul e del funk ed, infine, simbolo del Black Power, con uno sconfinamento nel regno dello show-biz fino alle non facili collusioni con il potere politico, di cui divenne comunque un influente rappresentante. A ventiquattro anni s’impose all’attenzione del pubblico, che cominciava a vedere in lui un eminente esponente della black music, con «Please, Please, Please». Sono i tempi di «Tuttifrutti» di Little Richard, e il gruppo di Brown, chiamato Famous Flames, attirò subito l’interesse di manager e discografici. Scritturato dalla King, passò di successo in successo con «Try Me» (citiamo solo il più significativo) ed una lunga sequela di ben dodici hits in soli due anni. Il 24 ottobre del 1962, in occasione di un suo memorabile concerto all’Apollo Theatre di Harlem, la King registrò tutto lo spettacolo, realizzando un memorabile album dal vivo, «Live At the Apollo», che vendette più di un milione di copie, tanto che James verrà acclamato l’anno seguente dalla stampa e dai media come il numero uno dell’R&B americano. Da lì in poi continuò a mietere successi ovunque andasse, mentre gli impegni lo vedevano occupato ogni sera in luoghi diversi. Fu questo il periodo di formazione e crescita come showman.

Ancora oggi «Live At the Apollo» è considerato fra i cento dischi più importanti della storia della musica afro-americana del Novecento ed una delle più riuscite performance dal vivo di tutte le epoche e nell’ambito di tutti generi musicali moderni. Dal vivo Brown divertiva e soggiogava con disinvoltura un pubblico multirazziale poiché aveva imparato tutti i segreti del palcoscenico acquistando in breve una padronanza assoluta dello stage, al punto da essere considerato uno spettacolo a sé stante. Fantasia, grinta e professionismo erano curati in ogni minimo dettaglio. Il suo arrivo sul palco veniva annunciato da una lunga presentazione, dopo che per parecchi minuti un potente sezione fiati aveva già scaldato l’audience. In termini di spettacolarità e di coinvolgimento fisico ed emotivo perfino le esibizioni di Elvis Presley, Chuck Berry e Little Richard o le performance di Mick Jagger, Pete Townshed e Jim Morrison sembravano poca cosa. L’America e non solo, impazziva per Brown: era il simbolo della «Cenerentola nera» formato uomo, colui che, dopo un’infanzia passata in un malfamato postribolo di infimo ordine, ce l’aveva fatta. Mr Dynamite rappresentava colui che, dopo una vita di umiliazioni e discriminazioni, era riuscito a realizzare il suo american dream, divenendo un afro-americano rispettato da politici ed uomini potenti, bianchi e neri, soprattutto per la sua capacità di parlare alle masse. In breve tento, dalla King passò alla Smash in un guazzabuglio legale dai connotati nebulosi, risolto e placato in parte tramite compromessi spartitori, specie in considerazione delle proficue vendite che accontentavano entrambe le case discografiche.

Ancora successi mondiali come «Out Of Sight», «I Feel Good», «Papa’s Got a Brand New Bag», «Prisoner Of Love», «Sex Machine», «Superbad» e «Soul Power». Siamo al delirio collettivo e all’obbedienza assoluta di milioni di fans, che rispondono positivamente all’invito di Brown (fatto durante una lunga trasmissione TV a lui dedicata poco dopo l’assassinio di Martin Luther King) di non scendere in piazza. Anche la Casa Bianca ringraziò sentitamente comprendendo il potere carismatico esercitato da James sulla folla. Nel 1966 ritornò alla King, quasi da padrone, ma dopo poco tempo la lasciò definitivamente per legarsi alla Polydor, firmando un favoloso contratto che, soldoni a parte, gli garantì un’ottima distribuzione e un’immagine adeguata in tutto il mondo. Piano piano cominciò a selezionare le proposte e a non prodursi più in forsennati spettacoli come era avvenuto in precedenza, quando la sua forma psicofisica era totale. In ogni caso, continuò ad esibirsi senza sosta: concordata la cifra, non c’era problema, lo show arrivava. Si narra che lavorasse anche per i centesimi, che non buttasse via mai nulla: forse l’umilissima origine o gli stenti della fanciullezza lo spingevano a lavorare in modo frenetico.

Contrariamente a tanti colleghi rapidamente scomparsi dalla scena James Brown seppe sopravvivere a tutte le mode e non si fece mai incastrare dagli «spremi-artisti» ma, sorretto da una lucidità davvero singolare e da un fiuto eccellente, rimase sempre a galla senza alcun apparente segno di cedimento allietando, tra l’altro, una abbondante seconda generazione cresciuta al suono della canzone-slogan «Say It Loud, I’m Black and I’m Proud». Tra gli anni ’70 e ’80 Brown riuscì a distillare alcuni piccoli capolavori di disco-funk come «It’s Too Funky In Here» e «Living In America» che lo allinearono perfettamente all’asse delle tendenze e ai dettami del momento. Il resto è storia, soprattutto senza certi antesignani come lui, capaci di fomentare il groove ed incrementare il gradiente di danzabilità del sound afro-americano, la musica da discoteca non sarebbe mai esistita.

James Brown

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *