// di Francesco Cataldo Verrina //

Ron Carter, geniale ed eclettico musicista, dotato di una tecnica non comune, inventivo ed estroso anche come compositore, è stato uomo fondamentale in alcuni line-up storici. Il suo nome compare in molti album iconici delle grande epopea del bop. Una sconfinata e variegata discografia come band-leader: oltre 2200 registrazioni, tra studio e live. Nel 1986 vince un Grammy nella categoria Best Instrumental Composition per il brano “Call Sheet Blues”, incluso nella colonna sonora del film “Round Midnight”, pellicola francese che come poche altre ha saputo rappresentare il jazz attraverso un racconto di fantasia. Secondo il Guinness World Records, il vecchio Ron è il jazzista più “registrato” in assoluto, ma non solo: a 87 anni “suonati”, Ron Carter, leggenda vivente, è da annoverarsi fra i più importanti contrabbassisti della storia del jazz di tutte le epoche.

Ron Carter – Pastels, 1976
Ron Carter, oggi ottantasettenne, resta uno dei pochi protagonisti della grande epopea del jazz degli anni ’60 e ’70. Durante la sua lunga carriera ha partecipato a un’infinità di registrazioni: come, come già detto, oltre 2000. A parte la sua interminabile discografia in veste di band-leader, sono pochi i giganti del jazz moderno che non abbiano usufruito dei servigi del suo vibrante e corposo basso. A volte sembra che gli album di Ron Carter siano una summa di tutte le esperienze precedenti, filtrate attraverso una forte personalità ed una capacità inventiva non comune. È difficile trovare all’interno della sua variegata discografia un album che non presenti un fattore distintivo o di diversità rispetto all’umore circostante.

“Pastels” del 1976 non è proprio il prototipo di album jazz che i puristi del genere si aspettano, anzi molti di essi potrebbero arricciare il naso: la presenza in alcuni tratti di 9 violini, 3 viole e 3 violoncelli rende questo disco un altrove rispetto al jazz classico o mainstream, ma l’abilità compositiva e direttiva di Carter fanno in modo che l’album trovi presto un salvacondotto per oltrepassare anche le barriere della diffidenza. Non si tratta del tipico album bidimensionale e di maniera “with the string”, dove il bop ed un mellifluo barocchismo forzato restano due universi paralleli, i quali, come due rette, non si sfiorano e non si compenetrano mai, al contrario la struttura organizzativa del set, giocata su una perfetta fusione degli elementi, porta la sezione archi ad essere non uno “strumento” ridondate e subissante, ma di contorno e di arricchimento di alcune fasi melodiche.

Ron Carter mantiene il suo basso sempre in primo piano, più di quanto non abbia fatto in altri dischi più canonici, usando sia il vecchio contrabbasso che un moderno basso elettrico. A supportarlo, l’inseparabile Kenny Barron al pianoforte, Harvey Mason alla Batteria e Hugh McCracken che suona la chitarra elettrica, acustica e l’armonica. Quest’ultimo strumento aggiunge molti altri punti di diversità, specie l’armonica che produce in alcuni frangenti una vaga atmosfera country and western. Nella sua totalità “Pastels” sembra la colonna sonora di un film surreale, dove la musica, a volte fiabesca ed a volte onirica, avvolge l’ascoltatore in una fitta trama di colori. Il titolo è emblematico. La combine fra i varie partiture sprigiona una fusione perfetta, quasi mercuriale. Contrariamente ad alcune produzioni del passato, in cui le “corde” venivano messe su un piano paritetico, se non surclassante, rispetto al nerbo jazzistico, qui non sono né degradate a un al ruolo di accessorio sottile, né di edulcorato compromesso o inutile sovrapposizione, ma si giunge quasi da una simbiosi.

Ciò è particolarmente ben illustrato dai pezzi come “Ballad” e “Pastels”, in cui il basso elegante ma occasionalmente imprevedibile e gli archi sviluppano un intrigante contrasto. In effetti, si verifica una sorta di completamento: la componente jazz da sola risulterebbe un po’ troppo asciutta, mentre le sole stringhe sarebbero eccessivamente smooth. Entrambi i reparti lavorano in sintonia e l’amalgama è tangibile. Se le due composizioni cit ate costituiscono la parte più contemplativa e melodica del progetto, i tre pezzi rimanenti, “Woolaphant”, One Bass Rag” e “12+12”, apportano swing e groove, ma senza rinunciare a melodie immediate ed accessibili. Registrato nell’ottobre del 1976 presso gli studi Fantasy in California per la Milestone, “Pastels” è un album diversamente jazz, quasi fusion, che merita, certamente, la vostra attenzione.

Ron Carter – “Peg Leg”, 1978
“Peg Leg”, significa gamba a piolo, una sorta di gamba di legno, quella che abbiamo visto più volte, al cinema o sui fumetti, nelle storie di pirati e di navi. La gamba di Capitan Uncino, ma forse sono solo fantasia e suggestione. Il 16, 18, 21 e 22 Novembre del 1977, Ron Carter uscì dallo Studio VanGelder con sottobraccio un album che racconta di mare e di uomini sulla rotta di un altrove che porta l’anima a guardare verso il Sud del mondo. “Peg Leg” è un disco intenso, flautato, vellutato, magnifico e scandito da un basso imperioso che funge da timone, guidando la ciurma verso una dimensione sonora fatta di accordi e di corde legati dalla chitarra di Jay Berliner e spinti dal vento di maestrale delle volanti note del piano di Kenny Barron.

“My Ship” di Gershwin, ossia la mia nave, narrata con tono itinerante, diventa il simbolo perfetto di un album con il vento in poppa che i solca i mari di un jazz a forte contaminazione afro-ispanico-caraibica, trovando il suo naturale luogo di attracco in “Epistrophy” di Thelonius Monk con la sua ripetitiva cadenza. I latini direbbero “nomen omen”. L’epistrofe nella retorica è una sorta di frase o parola ad effetto tesa a ribadire un concetto ripetuto alla fine di versi che si succedono. Il basso e le percussioni si ripetono, s’inseguono, aumentato spasmodicamente l’attesa per il lungo viaggio sonoro tra isole selvagge, terre lontane, volti esotici e tesori nascosti, che presto emergono dai microsolchi: quattro le pietre preziose composte da Ron Carter, ad iniziare dalla title-track, “Peg leg”, dove basso e chitarre intrecciano le corde in una lunga introduzione che conduce ad un crescendo ritmo-armonico innescato a ruota dal piano e poi trasportato in un dimensione quasi cinematografica dalla piccola sezione fiati: Jerry Dodgion flauto, ottavino, flauto contralto e clarinetto; George Marge, flauto, ottavino, oboe e clarinetto; Walter Kane flauto, fagotto, fagotto e clarinetto; Charles Russo clarinetto e clarinetto basso.

Eccellente il lavoro della sezione ritmica: Ron Carter basso elettrico, contrabbasso e percussioni; Buster Williams basso (tracce 1, 3 e 4); Ben Riley batteria e percussioni. “Sheila’s Song (Hasta Luego, Mi Amiga)”, che da sola vale il prezzo della corsa, è piccola rapsodia dal temperamento ispanico, ma dai tatti meticci, che offre a tutto l’ensemble una superba prova corale. “Chapter XI”, innesca qualche ardito riferimento al sacro: nel capitolo 11 della Genesi nella Bibbia, si parla di uomini che parlano la stessa lingua viaggiando verso Oriente, ma l’aura di sacralità viene smorzata subito dall’andamento del brano, che facendo rotta verso Est, si s’imbatte in una danza balcanica. “Peg Leg” è un album ricco di suggestioni, fra sacro e profano, tra musica e poesia, fra uomini e mondi possibili o immaginari.

Ron Carter – “Patrao”, 1980
“Patrao” di Ron Carter è un disco di rara bellezza, che se fosse uscito in un’altra epoca, avrebbe avuto un posto più importante nella narrazione ufficiale della storia del jazz mainstream. Siamo nel 1980 e per il jazz sono tempi difficili: l’idillio tra i bop e il mondo degli uomini sembra annegato fra i mille rivoli di una pressofusione a caldo con elementi ritmici ed istanze sonore provenienti da ogni dove. Ciascuno cerca la propria sua strada: chi attraverso uso massiccio di strumentazioni elettroniche; chi invece guarda al Sud del mondo. Ron Carter, bassista di pregio e protagonista di centinaia di autorevoli set, ha un già un posto nella storia, ma vuole tentare una sua carta, attraverso un jazz che non sia cosa altra della tradizione, ma che guardi verso un orizzonte più ampio.

“Patrao” è un progetto inclusivo, dove elementi latini fanno da contorno ad un jazz acustico suonato un in doppia configurazione di line-up ed a seconda delle traccie da Ron Carter al basso, Chet Baker tromba, flicorno, Aloisio Aguiar (tracce 1 e 5) e Kenny Barron pianoforte, Amaury Tristão chitarra (tracce 1 e 5) Jack DeJohnette (tracce 2-4) e Edison Machado (tracce 1 e 5) batteria e Nana Vasconcelos percussioni (brani 1 e 5); un incontro al vertice tra accreditate professionali, attraverso due emisferi sonori che s’incontrano. Tutte le composizioni firmate da Ron Carter dimostrano la sapienza costruttiva ed inventiva del bassista, soprattutto la sua ecletticità nel saper creare una varietà di spunti e situazioni musicali diverse, che vanno dal latin jazz al soul, dal bop alla ballata al lime dei Caraibi. L’album si apre con “Ah Rio”, un gioiello di sonorità meticce, combattuto fra atmosfere soul-funk e ritmi latini, sul quale si stagliano magicamente l’autorevole pianoforte di Kenny Barron e poi la splendida tromba di Chet Baker, mentre la sezione ritmica fornisce un vivace tappeto a doppio passo; “Nearly” è un’intensa ballata mid-range di sangue blues, giocata sul perforante effluvio sonoro della tromba di Chet.

La retroguardia è molto presente, basso e batteria sembrano un tutt’uno con gli strumenti di prima linea, soprattutto con il piano di Barron, al momento del suo ingresso in scena, l’afflato è perfetto e per qualche minuto si ha la sensazione di trovarsi in presenza di un naturale e prefetto piano trio; “Tail Feathers”, è un ottimo bop dai connotati funkified, una luminosa vetrina per tutti i sodali, dove ognuno si pavoneggia con ottimi assoli, del resto il titolo è emblematico, in italiano suona come “piume delle coda”, “Yours Truly” è un’intensa ballata, magnificata dalla troma di un Chet Baker assai ispirato; “Con l’atto conclusivo, la band ritrova il passo latino, “Third Plane” si srotola con movenze flessuose ricamate dalla tromba, sostenute dal piano e da una mercuriale sezione ritmica, mentre le esotiche percussioni di Nana Vasconcelos aggiungono spazialità ed un piacevole effetto di sospensione. Registrato al VanGelder Studio, il 19 e 20 maggio del 1980, “Patrao” di Ronni Carter è un disco da aggiungere presto alla vostra short-list.

Ron Carter -“New York Slick”, 1980
“New York Slick” di Ron Carter, registrato al Van Gelder Studio nel 1979 e pubblicato dall’etichetta Milestone l’anno successivo, è un disco poco documentato dalla cronache jazzistiche, eppure è un lavoro ricco di idee portate avanti da una band di tutto rispetto: Ron Carter al basso, Art farmer al flicorno, J. J. Johnson al trombone, Hubert Laws al flauto, Kenny Barron al pianoforte, Billy Cobham alla batteria, con la partecipazione speciale di Jay Berliner alla chitarra acustica e Ralph MacDonald alle percussioni percussioni sulla terza traccia della prima facciata, “Tierra Espagnola” che da sola vale il prezzo della corsa. Una ballata mid-range a passo flamenco e con una progressione ritmica avvincente che consente ai vari strumenti di muoversi su più livelli; davvero suggestivo l’incrocio tra chitarra acustica e flauto che creano una situazione quasi cinematografica; una piccola sinfonia dal cuore ispanico della durata di oltre otto minuti, in cui la Spagna rimane sullo sfondo e diventa un pretesto per esplorare nuovi mondi sonori.

Tutto l’album si muove in contesto soulful tratteggiato dalla tromba di Art Farmer e addolcito dal morbido trombone di J.J. Johnson. Ma il vero valore aggiunto è il piano di Kenny Barron con il suo stile zampillante e cristallino. La title-track, “NY Slick” descrive perfettamente gli umori dei una metropoli a volte assopita, altre volte frenetica, dove un Barron sempre a tiro innesca a turno i tre strumenti a fiato della front-line, ottimi gli interludi ritmici e gli scambi tra basso e batteria. Un post-bop elegante e raffinato, ma non di maniera. “A Slight Smile” è una scorrevole ballata, dove il pianoforte di Barron si appropria della scena sine die, lasciando lo spazio di un respiro al flicorno di Art Farmer. Ron Carter si conferma penna fluida ed inventiva firmando le cinque tracce dell’album. La sua verve creativa emerge soprattutto su due lunghi componimenti presenti sulla B-Side: “Aromatic”, un mid-range ad incastro fra i veri strumenti, che sembrano liberarsi ogni tanto dalle regole e spingersi verso citazioni classicheggianti; “Alternate Route, servito in un cocktail di elementi sonori dal tratto latino, dove flicorno, trombone e flauto disegnano a turno la loro idea di un mondo dai connotati esotici, favoriti dall’ottima propulsione ritmica proveniente dalle retrovie. “New York Slick” è un album dal fascino sottile, che, in quel periodo, riuscì a portare il jazz in una dimensione acustica sopraffina, mentre tutt’intorno dominava il fragore elettrico.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *