// di Francesco Cataldo Verrina //

Il nuovo album di Chris Potter ha prodotto notevole entusiasmo a vari livelli, specie fra gli addetti ai lavori. Basta un fugace ascolto per comprenderne l’importanza di un progetto, covato da tempo, e mai realizzato prima, almeno fin quando la congiuntura astrale non ha determinato l’allineamento di quattro importanti pianeti della costellazione jazz. Fuori di metafora, suddetti fenomeni non si ripetono con frequenza nell’ambito del jazz contemporaneo, dove spesso «le stelle stanno a guardare» in attesa di tempi migliori. Brad Mehldau al pianoforte, John Patitucci al contrabbasso e Brian Blade alla batteria accompagnano Chris Potter, sax tenore, soprano e clarinetto basso, in quella che potremmo definire la rinascita di un artista, amato dai colleghi e dalla critica, ma da molti ignorato e rimasto sempre a mezz’aria, nonostante fosse in possesso di un armamentario espressivo ed esecutivo in grado di porlo sul lineage evolutivo dei grandi sassofonisti jazz: da Dexter Gordon a Sonny Rollins, da John Coltrane a Wayne Shorter.

Pubblicato dalla Edition Records, «Eagle’s Point», basato su una notevole intraprendenza creativa, cadenzale e armonica, contiene otto originali di Potter, in cui il Nostro dimostra ancora una volta di essere un autore raffinato, mai banale ed altamente convincente. Il multistrumentista chicagoano da fondo al proprio arsenale presentandosi sul set armato di sassofoni tenore e soprano e di clarinetto basso, offrendo così al mondo la visione nitida di un musicista ultracinquantenne alla ricerca del tempo perduto. Un incontro al vertice fra titani che si sviluppa sul filo di uno spirito fortemente collaborativo ed inter pares, dove ciascuno degli artisti coinvolti è una fortezza con le sue torri svettanti, i suoi trofei, i suoi traguardi, la sua storia, ma dove il singolo genio affluisce al nucleo gravitazionale della medesima idea progettuale evidenziando una sonorità che nasce da una reale coesione di gruppo, superiore a quella che potrebbe essere la somma di singole parti durante un elaborato momentaneo e occasionale. Il salace e scolarizzato pianoforte di Mehldau bilancia con sobrietà e finezza, l’irruenza e l’opulenza del sassofono, mentre le spiraliche linee di basso di Patitucci e l’estro ritmico multidirezionale di Blade forniscono una rampa di lancio ideale per il decollo in grande stile Chris Potter. L’excursus sonoro si svolge fra cambi di mood e di modulo passando da una sovraeccedenza energetica giovanilistica ad una più matura e ponderata introspezione con accenni alla classicità, ma soprattutto riverberando elementi dinamici provenienti da varie epoche dello scibile jazzistico. Il quartetto si muove in punta di fioretto con grazia ed eleganza formale, ma non manieristica, mentre le prospettive e le aspettative dei singoli capitani di ventura incrociano la magniloquenza e l’efficacia della forza d’insieme. L’album è stato prodotto da Louise, figlia e manager di Dave Holland, in collaborazione con da John Davis, allievo degli Steely Dan, perfetto anfitrione in grado di canalizzare il «format» in un flusso agilmente fruibile e di facile presa mediatica. L’ascoltatore si trova comodamente adagiato sul piano inclinato di un concept imperniato su riflessioni ed intuizioni sonore più mature ed affinate rispetto agli standard odierni, sovente ondivaghi, dispersivi e calati in un caotico magma di ingorghi stilistici. Chiunque si trovi ad impattare con «Eagle’s Point» viene risucchiato all’interno di una cellula creativa ed esecutiva che sposta abilmente l’asse del mainstream fuori dai binari del prevedibile e del deja-vu, senza precipitare, però, nello sperimentalismo ostentato e finalizzato alla captatio benevolentiae di quella critica intellettualoide ma scarsamente intelligente.

L’opener, «Dream Of Home», stabilisce in seduta stante il tono dell’opera, mettendo in bella mostra le carte nautiche del viaggio attraverso ambientazioni sospese, un vivace modulo swing ed un fluido interplay, mentre il robusto ed energivoro tenore di Potter esce subito allo scoperto liberandosi in un movimento curvilineo che ricorda una fuga in crescendo fra gli angiporti di una metropoli, durante un film. L’abbrivio è quasi ingannevole, con un’introduzione da sotterfugio perpetrata Mehldau, i cui accordi spingono il sax in una dimensione da film horror-noir che, ben presto, muta in una progressione melodica dettata dalle rapide corse di Potter, mentre il pianista l’accompagna con tocco adamantino, sostenuto dall’affiatato tandem ritmico, Patitucci e Blade, per lungo tempo compagni di merende alla corte di Wayne Shorter, capaci d’intendersi con un battito di ciglia, i quali distillano un groove teso ed ansiogeno. Mehldau fa appello alla sua verve elargendo, senza badare a spese, un agile assolo nell’intermedio che chiude con millimetrica perizia, per poi ritornare agli accordi sospesi che avevano caratterizzato l’apertura del tema. «Cloud Message» esalta ulteriormente la gamma dinamica del quartetto, fra melodie contemplative e ritmi complessi, dove il tenore di Potter sembra assumere audacemente il comando fin dall’inizio, costruendo il suo assolo in modo aggressivo mentre, dalla retroguardia, i compagni lo spintonano in avanti galvanizzandone la propulsione. Dal canto suo, Mehldau s’infila abilmente nel contesto in modo scintillante, con Blade che gli serve «piatti» da chef stellato e Patitucci che pizzica il suo mammut a quattro corde con enfasi ritagliandosi uno spazio espositivo. A questo punto, Potter irrompe nuovamente sulla scena, mentre sul finale l’amalgama con i compagni di cordata raggiunge il climax. Alcuni segmenti dell’album sembrano scaturire da un immaginario esotico: Potter brandisce il suo clarinetto basso, con intro a cappella, nella sdrucciolevole «Indigo Ildiko», dove Patitucci ottiene il suo primo vero momento di gloria da solista con la complicità di un reattivo Brian Blade. «Indigo Ildiko» viene incapsulata in un’aura brunita e malinconica dal clarone di Potter che porta ad una virata minimalista, leggermente monkiana, da parte di Mehldau. Per il secondo assolo Potter agguanta nuovamente il tenore ravvivando il costrutto ritmico-armonico con una serie di corse a spirale.

La title-track, incarna l’essenza estetica, formale e sostanziale del disco fondendo groove attenuati ed audaci improvvisazioni sulla scorta di un’esplorazione musicale che diventa un hub di collegamento interattivo fra i sodali. «Eagle’s Point» possiede la sagoma di un hard bop diretto, segnato dai colpi insistenti di Blade e dal comping costante del pianista. Entrambi innescano una catena a reazione a più riprese da parte del tenorista, il quale si placa agevolando una levitazione pindarica di Mehldau, che passa le consegne al turbinio del batterista. «Aria For Anna» si sostanzia come una moderata escursione intrisa di sfumature soulful e di cromatismi attenuati, in cui tutti i membri del quartetto contribuiscono all’emanazione di un’aura poetica ed evocativa, mentre Potter, sfoderando il sax soprano, innalza un peana notturno alla bellezza degno dei migliori balladeer, locupletato dall’intrigante gioco contrappuntistico del double bass di Patitucci. Da parte sua, Mehldau impone un’atmosfera policroma, attraverso una dichiarazione d’intenti che tradisce qualche rimembranza evansiana, mentre Blade gode di intermittenti sprazzi di libertà. Nella magnetica «Other Plans», Mehldau raggiunge un elevato gradiente di rapsodicità, quasi commovente, erigendo una serie di scale ascendenti prima che Potter entri in scena mescolando ancora una volta il lirismo ai suoi veloci e vaporosi cluster. A questo punto il sassofonista alterna emotivi e vibranti cambi di passo, fino a planare su una morbida dichiarazione finale. Patitucci è di nuovo primo attore a cominciare dall’intro di «Malaga Moon», in cui, all’interno di un humus «tanghero», egli impianta e mescola tecniche ad arco e pizzicato, le quali creano un’atmosfera sofferente, alleggerita dai mutevoli accordi di Mehldau e da un assolo fibrillante e intricato di Blade. Alla sua maniera, Potter entra in picchiata secernendo una serie di appassionate asserzioni che portano il plot narrativo fuori dalle secche di uno sterile e pericoloso gioco di alternanze virtuosistiche. In chiusura, un tocco esotico con «Horizon Dance», energia allo stato dell’arte, con un Potter in modalità free-blowing, corazzato ed atletico, ancora una volta sospinto da un groove cinetico ed espansivo che consente a ciascuno dei sodali di esprimersi senza freni inibitori. Unica nota dolente, a mio avviso, la copertina dell’album, poco originale: pensate che ci sono molti soggetti simili perfino nell’ambito della disco-funk e della fusion anni Settanta, ma l’involucro non toglie nulla alla sostanza del disco.

Chris Potter aveva incrociato per la prima volta i membri della sezione ritmica di questo album negli anni Novanta, subito dopo essersi trasferito a New York in età post-adolescenziale. Mehldau è apparso nell’album del sassofonista, «Moving In», registrato a New York e pubblicato della Concord del 1996. In relazione a Mehldau e Blade, anch’essi compagni di avventure negli anni ’90, è necessario riascoltare il classico «MoodSwing» (1994), in cui entrambi erano al soldo di Joshua Redman e Christian McBride. Dal canto loro, John Patitucci e Brian Blade hanno suonato a lungo insieme nell’organico di Shorter. Oggi, ognuno di loro è un leader affermato o prossimo allo status di «gran cavaliere» del jazz. Talvolta certe reunion tardive possono, però, sortire effetti indesiderati a causa delle marcate personalità dei singoli. Invece in «Eagle’s Point» Potter è fluido come sempre, Mehldau si fonde con il leader senza sforzo divenendo all’uopo l’alter ego, Patitucci risulta piuttosto adattivo mostrando un’intesa non comune ed aprendo una corsia preferenziale con il sassofonista, mentre Blade fornisce millimetricamente il suo affidabile e malleabile supporto percussivo. Pare che i quattro si siano incontrati in uno studio newyorkese alla fine del 2022 per concretizzare il progetto di Potter, ma che la Edition Records abbia aspettato fino alla primavera del 2024 prima di pubblicare la sessione in oggetto, intanto per non ostacolare i progetti già in cantiere dei singoli e poi per dar loro il tempo di costituirsi come una band in pianta stabile che, durante la prossima estate, toccherà molti eventi jazzistici internazionali.

Mehldau, Potter, Patitucci, Blade
2 pensiero su “«Eagle’s Point» di Chris Potter: un incontro al vertice fra giganti che si sviluppa sul filo di uno spirito fortemente collaborativo (Edition Records, 2024)”
  1. Leggere di musica quando scrive Francesco Verrina ti invoglia inevitabilmente all’ascolto con un approccio diverso rispetto a ciò che ognuno di noi può fare in base alle proprie sensazioni e conoscenze. È un arricchimento culturale degno di nota.

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