Un lavoro che taglia trasversalmente l’asse idiomatico della tradizione jazz d’oltreoceano, evidenziando notevoli sfaccettature stilistiche, arricchite a tratti da input di prossimità e contemporanei. Non è difficile scorgere tra le pieghe dell’album marcate denotazioni relative alle nomenclature del passato.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Dire jazz oggigiorno, potrebbe voler significare tutto ed il contrario di tutto, specie in Europa dove il termine è usato, abusato, santificato, usurpato e contaminato oltremodo. Pensate che in USA, negli ambienti afro-americani il termine jazz non sempre è accettato di buon grado, secondo la vulgata gergale sarebbe sinonimo di «jezz», ossia eiaculare. Al netto di ogni perifrasi sociologica, nel Vecchio Continente ci siamo appropriati di questa parola e la mettiamo dovunque come un elemento talvolta distintivo, talaltra coreografico. Attenendoci però ai testi sacri che descrivono la materia avente determinate caratteristiche, possiamo sostenere che «Unaware Beauty» di Bruno Montrone, pianista pugliese al suo debutto discografico, contenga tutti quegli elementi costitutivi che fanno del jazz un linguaggio peculiare, per quanto spugnoso ed assorbente, ossia caratterizzato da imprevedibili eruzioni inventive non preventivamente scritte, quindi swing, clave, voicings, blue notes, tritono, traiettorie improvvisative, senso di avventura e genetica tendenza alla libertà espositiva.

Bruno Montrone è un esordiente «attempato», con un ventennale background di esperienze sul groppone, che potremmo definire più prosaicamente gavetta. Il pianista pur guardandosi intorno e accettando stimoli emotivi ed ispirativi provenienti da più parti, conosce bene le dinamiche della musica sincopata afro-americana, facendone tesoro nell’atto compositivo ed espositivo, sostenuto nel suo cammino dal contrabbassista barese Giulio Scianatico, altro capitano di lungo corso capace di offrire ai sodali sicurezza e conoscenza dello scibile trattato; non ultimo il batterista Joe Farnsworth figura di spicco negli ambienti newyorkesi e punto di riferimento per chiunque voglia cimentarsi con un kit percussivo. In alcune partiture, il formato trio è corroborato dal contributo di due presenze femminili: la vocalist Serena Grittani e la sassofonista americana Sarah Hanahan che aggiungono al progetto spessore ed ulteriore variabilità cromatica. «Unaware Beauty», pubblicato dalla A.MA Records, si coagula attraverso nove brani: tre standard, una composizione del chitarrista Guido Di Leone e cinque componimenti originali che tagliano trasversalmente l’asse idiomatico della tradizione jazz d’oltreoceano, evidenziando notevoli sfaccettature stilistiche, arricchite a tratti da input di prossimità e contemporanei. Non è difficile scorgere tra le pieghe dell’album marcate denotazioni relative alle nomenclature del passato: basta ascoltare l’opener «Edward Lee» di Harold Mabern, a cui pianismo di Montrone sembrerebbe far, sovente, riferimento, benché il musicista pugliese eviti accuratamente il ricalco pedissequo. Lo standard in oggetto, pur mantenendo il portato swingante e malleabile dell’originale, viene locupletato da Montrone e soci con una più moderna dinamica espositiva e qualche divagazione accordale, su cui la sassofonista Sarah Hanahan ridisegna nuove circonvoluzioni tematiche optando per un fuga improvvisativa quasi free style, mentre la retroguardia ne amplia lo spettro armonico e i contrafforti ritmici.

Il modulo espositivo di Montrone è sempre brillante e cinetico come ben conclamato in «Riflessiva», una traiettoria ovalare fatta di un sistema di fraseggi roteanti a cui la retroguardia fornisce un drive costante, asciutto e privo di acqua stagnante. La title-track «Unaware Beauty», è una ballata adagio-mosso ricamata dalla vocalità di Serena Grittani, la quale sviluppa un’aura sospesa che riporta alla mente Kamasi Washngton. Sono, però, solo suggestioni, poiché non c’è ampollosità o epicità dilatata, ma solo un espediente per consentire al vorace piano di Montrone di planare verso una dimensione pressoché riflessiva. «The Hodgepodge» è post-bop declinato in scioltezza a sei mani e magnificato dal un sinergico gioco di squadra, in cui la somma totale è superiore all’apporto delle singole parti. «Where Or When» ha le sembianze di una ballata dalle tinte autunnali, dal sapore retrò, ammantata da un canto soulful che scava nei meandri di un’anima inquieta. «Phrygian Sound Connotation» è un viaggio antelucano a velocità crescente lungo strade di una metropoli che risucchia, prima dell’alba, gli ultimi sprazzi di una vita notturna fotocopiata in maniera mercuriale dallo smanioso e perforante rutilare del sassofono, a cui il piano di Montrone fa da navigatore, mentre basso e batteria fungono da carburante. «Wide Awake» si sostanzia come un’altra esplorazione triangolare, che mette in luce l’affiatamento di un trio telepatico negli scambi e nell’intesa. «With Malice Toward None» ha la sagomatura di una ballata ruffiana e maliziosa, sottesa da un swing leggiadro che si evolve in progressione offrendo ai tre sodali piccole vetrine di vanità espositiva. In chiusura, «Bau Blues», un hard-swing rotolante, in cui il piano di Montrone marca il proprio territorio attraverso traiettorie arcuate e verticali, mente la retroguardia sbuffa e rinterza, ritagliandosi qualche momento di gloria personale: da manuale l’assolo di Joe Farnsworth. «Unaware Beauty» di Bruno Montrone non tenta alcuna rivoluzione copernicana dello scibile sonoro, parla con un linguaggio chiaro e diretto, soprattutto si capisce subito il senso della parola jazz, quando non viene pronunciata a vanvera o con lingua biforcuta.

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