Diana Ross

// di Francesco Cataldo Verrina //

Nel 1966, la Motown produsse un terzo dei dischi americani più venduti in tutto il mondo. Un distinto ed inconfondibile Motown Sound, largamente dovuto al lavoro di Gordy e del suo trio autorale, Eddie Holland, Lamont Dozier, Brian Holland (H-D-H), iniziò ad affermarsi a partire dal 1963. Nati per essere ballati e per essere ascoltati, soprattutto con le radioline a transistor e suonati nei juke-box, i prodotti di casa Gordy irretivano gli ascoltatori con un mix di voci soul-gospel, l’uso particolare delle percussioni e del caratteristico basso di James Jamerson, l’enfasi sui piatti ed il continuo ripetersi dello schema principale della canzone. Dal 1963, il team H-D-H creò in successione ben ventotto hits d’alta classifica per una rosa di musicisti chiamata la Hall of Fame del soul: Supremes, Temptations, Four Tops, Miracles, Martha And The Vandellas, Marvin Gaye, Jackson 5, The Commodores e Stevie Wonder.

Diana Ross fu la regina assoluta dell’etichetta di Detroit, simbolo di un’epoca Diana rappresentava la donna, per di più nera, che aveva sfondato il muro della diffidenza bianca. La Ross divenne presto un personaggio di culto in tutto il mondo, e non in un genere di nicchia come il jazz o il soul ma in un ambito come il pop, in cui la competizione era esasperata e dove si giocavano i grandi fatturati dello show business. Proprio nella città della Motown e delle automobili, Detroit, che Diana Earle era nata nel 1944 e dove all’età di 16 anni, mentre frequentava le scuole superiori, formò il suo primo ensemble vocale, le Primettes, con cui l’anno seguente, nel 1961, firmò per l’etichetta di Berry Gordy cambiando il nome in Supremes. Il successo che andò oltre le previsioni degli stessi produttori, a partire dal 1964, fece delle Supremes il principale gruppo femminile della storia della musica popolare di ogni tempo, con album e singoli che raggiunsero a raffica le vette delle classifiche uno dopo l’altro ed, in molti casi, addirittura in contemporanea con il rischio d’inflazionare il mercato. «Non un semplice successo», si diceva, «ma una love story tra il mondo e queste tre ragazze».

Ben presto Diana Ross cominciò a rivestire un ruolo di preminenza nel trio nato in invece in un regime di parità, vuoi per la voce, vuoi per il look scenico accattivante e, nel 1967, la ragione sociale cambiò per volontà dello stesso boss della Motown, in Diana Ross & The Supremes. La società durò fino al 1969 quando Diana pensò di abbandonare il terzetto ed intraprendere una carriera come solista, esibendosi per l’ultima volta dal vivo con le Supremes nel gennaio del 1970. Mutò il contesto, dunque, ma non il successo che rimase invariato. Fu lei a scoprire ed introdurre nel roster Motown Michael Jackson ed i suoi fratelli, i cosiddetti Jackson Five. L’anno successivo con «Ain’t No Mountain High Enough» la Ross era di nuovo in cima alle charts. Gordy (che con lei ebbe una relazione) aveva deciso di seguirne in prima persona la carriera, segnata da una raffica di singoli da classifica. L’impazzare del fenomeno disco music, portò l’avvenente Diana a misurarsi anche su questo terreno, pur mantenendo la sua innata classe. Vennero dati alle stampe «The Boss» (1978) e «Diana» (1980), contenente la celeberrima «Up Side Down», due pietre miliari della disco più sofisticata, prima che la cantante di Detroit si dedicasse al cinema e ad un soul-pop di lusso fatto di ballate melodiche e confidenziali, tratte dalle colonne sonore di «Lady Sings The blues», «Mahogany» e «The Wiz».

Le condizioni di partenza dei creatori del Detroit Sound furono uguali a quelle di molti giovani musicisti di colore. Gordy e i suoi collaboratori provenivano da famiglie povere, in parte dagli slums, e s’erano fatti le ossa nei ghetti neri. Una volta Barry diede questa descrizione dello slum: «Topi, scarafaggi, lotta, talento e amore». Il talento e l’amore gli rimasero attaccati addosso, tanto che ne fece il nucleo vitale del sound della sua gente, presentato come brown music: un un mistura di soul-rock melodico e terzinato, irrorato da una vena di gospel. Studiosi a vario titolo si sono spesso domandati: «Ma fu veramente la musica dei neri? Non si trattava, piuttosto, di un desiderio di evadere dalla vita dello slum, di avere successo ad ogni costo, di staccarsi dalle loro condizioni di partenza, di cancellarle dalla memoria?». Gli artefici del suono Motown non cercavano di superare la propria origine attraverso la musica e le parole o di denunciare talune condizioni di disagio a livello d’impegno politico; al contrario, si servivano della conoscenza diretta di talune situazioni ambientali e sociali per nascondere eventuali problemi e per evaderli in modo indolore. Ai loro sostenitori essi dicevano: «Non prendetevela. Ascoltateci e dimenticate i vostri guai». La musica che usciva dalla bottega artigiana della Motown diventava contagiosa e coinvolgente come una droga: anche i Beatles ne furono affascinati. Per il loro primo tour americano chiesero come gruppo di supporto Diana Ross & The Supremes. Una nota canzone delle Supremes, dice: «Non possiamo dimenticare la città delle automobili, ma tutto ciò che ci occorre è musica, dolce musica!».

Diana Ross & Michael Jackson

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *